Tra India e Cina un braccio di ferro destinato a non evolversi
Quasi un anno fa, da queste pagine, commentando la decisione del premier indiano Narendra Modi di cambiare la forma dello stato autonomo indiano del Kashmir, trasformandolo in un territorio dell’Unione insieme a quella che era una sua regione, il Ladakh, divenuta anch’essa territorio dell’Unione, avevamo sottolineato come la Cina guardava con interesse e preoccupazione a quanto Modi aveva fatto nell’area.
La questione non era solo quella di sottrarre all’influenza pakistana e islamica un’area in un’opera di “induizzazione” del Paese di Gandhi, ma anche dare un chiaro segnale alla Cina che, con l’India, tra est e ovest del subcontinente, condivide un confine non del tutto riconosciuto di oltre 3.000 chilometri.
Negli anni, le dispute territoriali hanno visto l’India fronteggiare i cugini pakistani, soprattutto per quanto riguarda le regioni del Kashmir. Ma i confronti, anche armati, tra il paese di Gandhi e quello di Mao, non sono mai cessati.
I nodi dello scontro
I punti di scontro sono principalmente due: a ovest, quello del Ladakh, a est quello dell’Arunachal Pradesh e del Sikkim. La Cina ufficialmente non riconosce lo stato indiano dell’Arunachal Pradesh, 90.000 chilometri quadrati tra Tibet e India, mentre l’India accusa la Cina di occupare circa 38.000 chilometri quadrati del Kashmir.
La “linea attuale di controllo“, il confine conteso fra i due Paesi, è da sempre attraversata dal fuoco dei due eserciti. Nel 1986-87 si sfiorò di nuovo il conflitto per una serie di attacchi e incursioni in territorio straniero. Nel 1993 le due parti firmarono un accordo per ridurre le tensioni e tre anni dopo fu si insediò una commissione per la pace.
Con la visita in India dell’allora premier cinese Wen Jiabao il 12 aprile 2005, fu siglato un accordo che sancì i principi guida della risoluzione della disputa. Nei 3.500 chilometri di confine contesi, rientra anche la disputa sulla sovranità dello Stato indiano del Kashmir, piccolo stato tra Nepal e Bhutan. Nel 1975 l’India annesse di fatto il Sikkim al suo territorio senza tuttavia che tale atto venisse mai riconosciuto dalla Cina. L’accordo firmato nel 2005 tra India e Cina non delimitò il confine fra i due Paesi, ma li impegnò di fatto, se non formalmente, ad uno status quo senza ostilità fino alla conclusione dei negoziati. Inoltre Wen Jiabao dichiarò la sovranità indiana sul Sikkim, di fatto cancellando una delle due dispute.
Nella parte orientale del Paese, la situazione è stata più o meno tranquilla, tanto che i governi indiani nel passato hanno anche riaperto il passo di Nathula, in Sikkim. Attraverso il collegamento, di 1.300 chilometri, India e Cina possono sviluppare ancora di più i loro commerci evitando di dover percorrere via mare oltre 6000 chilometri. Queste aperture però non hanno escluso che le schermaglie tra i due eserciti continuassero, così come gli sconfinamenti militari, soprattutto quello cinese in territorio indiano.
Come è successo anche lunedì 15 giugno quando, secondo le centellinate e confuse informazioni che arrivano da New Delhi e da Pechino, ci sarebbero stati scontri tra militari, senza esplodere un colpo, nei quali hanno perso la vita 20 soldati indiani e non si sa quanti cinesi. Il luogo dello scontro è strategico non solo per la Via della seta, ma anche per la vicinanza con il Pakistan, da sempre alleato cinese anche in chiave anti-indiana e anti-americana, e per le vie di collegamento con le due regioni più “calde” controllate da Pechino (Tibet e Xinjiang).
Sul confine orientale, India e Cina si contendono principalmente due zone, controllate dalla Cina con l’avallo di Islamabad ma reclamate dall’India: l’Aksai Chin e la valle Shaksgam. Non lontano, il ghiacciaio del Siachen, nel Karakorum, è amministrato da Delhi e rivendicato dal Pakistan.
Improbabile la discesa sul campo di battaglia
Improbabile che New Delhi e Pechino scendano sul campo di battaglia, nonostante entrambi facciano del nazionalismo, dell’identità, della difesa dei confini una bandiera. Modi ha detto che il sacrificio dei soldati uccisi non sarà invano. Entrambi i Paesi hanno armi e capacità per scatenare la fine del mondo, ma non si arriverà a nulla, neanche ad una soluzione pacifica. Modi non è uomo di trattati così come di concessioni, e la vicenda di un anno fa con il Kashmir lo ha dimostrato.
Ma il rapporto di forza di New Delhi con Pechino è diverso. Xi Jinping non è da meno di Modi, anche se meno propenso alla ribalta mediatica come il suo omologo indiano. La questione tibetana non è sicuramente un ostacolo né un motivo di frizione. A Modi, in verità, dei buddisti e del Dalai Lama che vive in esilio in India, interessa poco. Lui, che vuole “induizzare” il Paese, vede i discepoli di Siddhartha come cugini minori non pericolosi. Ma non permetterebbe a nessuno di mettere bocca su quanto fa nel suo Paese. La Cina, dal canto suo, ha ormai quasi completano l’opera di “cinesizzazione” del Tibet, attendendo solo il momento per sostituirlo con uno voluto da Pechino, come già successo per il Panchen Lama.
La disputa tra i due Paesi è solo un braccio di ferro tra due colossi per ricordare la presenza dell’altro.