La pericolosa accelerazione della Casa Bianca sui negoziati tra Serbia e Kosovo
La defenestrazione dell’ex premier kosovaro Albin Kurti e l’arrivo del suo successore Avdullah Hoti al governo, sulla base dello schema delineato dal presidente Hashim Thaçi, hanno portato all’attesa accelerazione del piano statunitense per arrivare a un accordo complessivo tra Kosovo e Serbia entro le elezioni presidenziali di novembre – un accordo che, con molta probabilità, includerà il pericoloso precedente di uno scambio di territori.
Il 15 giugno, con tono trionfalistico, l’inviato speciale Usa per i negoziati tra Serbia e Kosovo Richard Grennell ha annunciato via Twitter che Belgrado e Pristina avevano acconsentito a interrompere, rispettivamente, la campagna di disconoscimento diplomatico e quella di adesione agli organismi internazionali per partecipare a una sessione negoziale alla Casa Bianca il prossimo 27 giugno. Grennell ha poi aggiunto – in una specie di excusatio non petita – che il focus dei colloqui sarebbe stato l’economia e che se le due parti non fossero rimaste soddisfatte dal loro esito, si sarebbe tornati allo status quo.
Al messaggio dell’inviato di Trump ha subito fatto eco quello di Thaçi, che altrettanto entusiasticamente accettava l’invito di Grennell ribadendo il carattere fondamentale della leadership americana per la prosperità del Kosovo.
Da Belgrado, il presidente Aleksandar Vučić, il cui Partito Progressista Serbo (Sns) si appresta a far man bassa alle elezioni parlamentari del 21 aprile grazie anche al boicottaggio dell’opposizione, dichiarava la propria disponibilità a parlare con tutti gli attori coinvolti nel processo. Si tratterebbe di un quadro idilliaco in tempi di brutale realismo della politica internazionale, se non fosse che gli eventi che porteranno al vertice del 27 giugno segnano l’effetto finora più tangibile della rottura dell’asse tra Stati Uniti ed Europa proprio in una regione, quella balcanica, che dagli anni ’90 ha rappresentato uno dei principali investimenti congiunti dell’Occidente.
Bad timing e bad luck?
Non si è infatti trattato di un caso di bad timing se l’annuncio di Grennell è arrivato mentre Miroslav Lajčák, il Rappresentante speciale per il dialogo Serbia-Kosovo nominato dall’Unione europea, preparava la sua prima missione a Pristina.
Si è invece trattato (forse) di bad luck se Lajčák è rimasto bloccato per una notte a Zurigo il giorno prima del suo arrivo in Kosovo, dato che l’Albania (dove l’aereo doveva fare scalo) non aveva ancora aperto il suo spazio aereo ai voli dalla Svizzera. L’avventura aeroportuale (a lieto fine) del Rappresentante speciale Ue ha rappresentato la proverbiale ciliegina sulla torta, dopo i messaggi più volte lanciati nelle scorse settimane da Thaçi volti a delegittimare Lajčák poiché ex ministro degli Esteri di un Paese – la Slovacchia – che non riconosce il Kosovo, e il suo tentativo di riportare in vita il processo negoziale europeo sulla base della considerazione che l’unico argomento che Bruxelles può affrontare con Pristina è la lungamente attesa liberalizzazione dei visti per permettere ai cittadini kosovari di viaggiare liberamente nell’Ue – una promessa che Thaçi accusa duramente l’Unione di non aver mantenuto -.
Il presidente kosovaro ha così ribadito per settimane che non avrebbe incontrato Lajčák al suo arrivo a Pristina: anche se tale intenzione non ha poi avuto seguito – il diplomatico slovacco ha infatti incontrato Thaçi, oltre che il premier Hoti, la speaker del Parlamento Vjosa Osmani e l’ex premier Kurti – resta difficile valutare quanto efficace tale visita sia stata, con il leader kosovaro che in conferenza stampa ha posto l’accento esclusivamente sulla liberalizzazione dei visti e sulla necessità di arrivare “al più presto” al mutuo riconoscimento tra Pristina e Belgrado, senza citare il processo negoziale europeo.
Pristina e Belgrado a confronto
Lajčák si recherà a Belgrado dopo le elezioni del 21 giugno, per i colloqui con Vučić e la premier Ana Brnabić: se l’accoglienza sarà sicuramente più calorosa che a Pristina, non è detto che la visita sarà necessariamente più fruttuosa, dato che la Serbia è considerata da molti come la “favorita” dall’Amministrazione Trump. Un segnale di questo trattamento preferenziale sarebbe la condizione imposta da Washington al Kosovo di fermare la campagna di ammissione in organizzazioni internazionali e di riconoscimento diplomatico per partecipare al vertice alla Casa Bianca: come fatto notare dal ministro degli Esteri serbo Ivica Dačić, se Pristina blocca i suoi tentativi di adesione alle organizzazioni internazionali, alla Serbia viene a mancare il motivo per ostacolarli.
Un altro elemento apparentemente a sfavore del Kosovo è interno: al contrario che in Serbia, dove l’allineamento nel governo sulle posizioni di Vučić è totale, la posizione negoziale di Pristina è lungi dall’essere monolitica, con Hoti che sembra aver alzato la testa dopo un iniziale profilo basso, escludendo ogni ipotesi di scambio di territori e reclamando un ruolo di primo piano nel team negoziale che volerà a Washington.
Scambio di territori in vista?
In questo contesto, le pressioni dell’amministrazione Trump per una cerimonia di firma al Rose Garden della Casa Bianca il 27 giugno potrebbero portare effettivamente ad un accordo che includa il land swap. Una volta incassato il successo (specie a fini elettorali), Washington lascerà Belgrado e Pristina sole nel gestirne l’implementazione, che potrebbe rivelarsi un terremoto in Kosovo, dove Kurti e il suo Vetëvendosje sono pronti a cavalcare in Parlamento e nelle piazze la profonda contrarietà della società kosovara allo scambio di territori.
A quel punto, toccherà all’Unione europea “raccogliere i cocci”: per farlo, però, dovrà mostrarsi politicamente all’altezza della sfida, offrendo un tracciato realistico per il processo che dovrà portare alla normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo e alla realizzazione della loro prospettiva europea, magari con un coinvolgimento più attivo della Germania, probabilmente lo Stato membro con più influenza nella regione.
Le opinioni espresse appartengono unicamente all’autore e non riflettono necessariamente l’opinione della Commissione europea o del Servizio europeo di azione esterna.