IAI
Recovery fund

I quattro frugali e il rilancio dell’economia italiana

6 Giu 2020 - Francesco Bascone - Francesco Bascone

L’opposizione dei quattro Paesi rigoristi, capeggiati dall’Austria, alla componente a fondo perduto del Recovery fund si presenta come conforme ai principi di una politica economica “responsabile”, ma è piuttosto dettata da considerazioni di “realismo”politico. Diciamo pure da scarsa empatia verso le cicale mediterranee, o da sensibilità agli umori egoistici degli elettorati. Ma constatarlo non significa dare ragione a quei nostri politici che reclamano illimitata solidarietà senza vincoli di sorta.

L’insistenza dei quattro frugali
L’insistenza di Sebastian Kurz e compagni sulla necessità di restituire i prestiti, quasi che venisse chiesto di trasferire porzioni di reddito dalle tasche dei virtuosi cittadini d’oltralpe a quelle degli inefficienti italiani, ha un fondamento economico molto debole.

I fondi che affluiranno al fondo sono risparmi di famiglie e liquidità di investitori istituzionali che cercano impieghi a basso rendimento ma massima sicurezza, come i Bund tedeschi. Teoricamente, andranno restituiti a carico dei bilanci Ue, che pertanto dovranno essere aumentati, ma senza ricorrere a versamenti dai bilanci nazionali, in quanto vi si provvederà con nuove imposte comunitarie, funzionali alla svolta “verde”. Nella realtà è molto probabile che, al momento della scadenza delle obbligazioni del fondo, il mercato sia più che disposto a recepire nuove emissioni, sempre che l’Euro non abbia subito terremoti, e che quindi la restituzione continui a slittare.

Non si tratta dunque di proteggere i contribuenti degli Stati “frugali” da prelievi forzosi a favore di terzi, ma di rassicurarli nel momento in cui la crisi generale obbliga ad abbandonare il pareggio di bilancio appena raggiunto. Rassicurare l’opinione pubblica che sarà uno scostamento sensibile ma passeggero, che il ritorno a una politica di bilancio virtuosa non sarà lasciato in balìa di partner che hanno una diversa concezione dei deficit pubblici e, in qualche caso, hanno mostrato di vacillare nella loro fede nell’Euro.

L’Italia preoccupa l’Ue
In Italia evochiamo volentieri i tempi in cui eravamo campioni di europeismo indipendentemente dall’interesse nazionale e, riallacciandoci a quella tradizione, chiediamo agli altri europei uno scatto di solidarietà, all’altezza della sfida imposta da circostanze eccezionali. Dimentichiamo forse quante volte in anni recenti nostre personalità di governo hanno orgogliosamente proclamato che “non accettiamo lezioni da Bruxelles” (o da Bruxelles e Berlino).

Soprattutto la squadra giallo-verde, con i suoi pseudo-economisti inclini a scivolare verso il “piano B”,  si era distinta per atteggiamenti di sfida.  Si faceva affidamento sul rischioso assioma che Italy is too big to fail.  Preoccupavano i Paesi “virtuosi” i programmi di spesa  in deficit non indirizzati all’aumento della produttività, come i condoni fiscali e l’abbassamento dell’età pensionabile.

Con il Governo Conte-2, e lo stimato Ministro dell’Economia Gualtieri, l’Italia ha riguadagnato una fetta di fiducia, ma non al punto da superare tutte le apprensioni. Anche perché presto o tardi ci saranno nuove elezioni e i sondaggi mostrano che gli slogan populistici hanno tuttora una certa presa.

Rafforzare l’economia di domani
Che i Paesi più colpiti dalla pandemia debbano essere aiutati più che gli altri, lo riconoscono un po’ tutti. La generosità che il momento eccezionale impone è però frenata dai dubbi circa la volontà delle forze politiche e la capacità dell’amministrazione di fare buon uso del programmato afflusso di miliardi.

È dunque nel nostro interesse fugare quei dubbi, evitando prese di posizione tali da rafforzare il sospetto che lo spettro degli eurobond, cioè della mutualizzazione del debito pregresso, cacciato dalla porta, rientri dalla finestra. I discorsi su un presunto tesoretto da ripartire fra le varie categorie, e da utilizzare per abbassare le tasse o per costruire il ponte sullo Stretto o altre faraoniche grandi opere, sono da bandire perché ci danneggiano. E anche insistere su esborsi anticipati del Recovery fund entro quest’anno, comunque considerati non praticabili dalla Commissione, può destare l’impressione che lo si consideri lo strumento per sanare la voragine che si sta aprendo nel bilancio statale 2020.

Una parte di quel buco è dovuta alla cassa integrazione, e può essere tappata con il ricorso al  programma Sure; per gli investimenti urgenti in campo sanitario, necessari per essere pronti a far fronte all’eventuale recrudescenza autunnale della pandemia, ma anche per spese indirettamente connesse al Covid, c’è il Mes. Il Recovery fund, insieme a questi programmi comunitari e agli acquisti di titoli della Bce, contribuisce a dare fiducia ai mercati, e quindi a contenere l’aumento dello spread nonostante un indebitamento che supererà il 160% del Pil.

Ma ci conviene dimostrare di averne ben compreso la finalità: finanziare non i mancati introiti del passato e del presente, bensì il rafforzamento della competitività e sostenibilità dell’economia di domani. Quindi digitalizzazione e “green new deal”, ma anche creazione di posti di lavoro; e non principalmente nel settore delle costruzioni ma piuttosto nella sanità, la scuola, i servizi sociali, la ricerca, i piccoli interventi migliorativi nelle periferie. E affrontare sul serio le riforme necessarie per attrarre investimenti, prima fra tutte quella della giustizia.