Europa mediterranea e migranti
Il lockdown dell’intero territorio europeo aveva rimosso dal catalogo delle priorità problematiche i flussi migratori, praticamente rarefatti nei mesi della pandemia. L’ultimo fotogramma di una sequenza ininterrotta e lunga almeno un decennio risale al mese di gennaio: era la cronaca drammatica dell’annegamento di un bambino nel mar Egeo, nella sfortunata migrazione di siriani diretti in Europa per la via interna, con l’attraversamento della Grecia.
Nuova crisi migratoria
Adesso che la pandemia sembra allentare la presa sui Paesi dell’Europa comunitaria, si riapre l’esodo, sospinto dalla buona stagione e dal perpetuo ribollire della Libia e delle altre aree critiche del medio-Oriente. Il warning è riferito a 20000 migranti in rotta per le coste italiane, spagnole, greche, maltesi e cipriote: l’Europa mediterranea che, a partire dalle primavere arabe, sopporta a nome del continente il carico di un impatto che ha conosciuto solo solidarietà formali dall’Ue e nessuna concreta ipotesi risolutiva.
La nuova crisi migratoria nell’area mediterranea è l’esito di molti fattori – l’affievolirsi dell’allarme pandemico forse non rappresenta l’elemento decisivo. Piuttosto appare evidente il fallimento delle politiche di “esternalizzazione dei confini” praticato attraverso la devoluzione a Paesi terzi del compito di sigillare le frontiere, spostate ai limiti dei Paesi di emigrazione. A parte l’obiezione sull’uso controverso dei fondi europei – destinati alla cooperazione ma impiegati per il pattugliamento militare delle frontiere – questa strategia, adottata in chiave di autotutela elettorale dei governi dei Paesi membri Ue per fronteggiare l’ondata sovranista, con evidente sottovalutazione dei profili di compatibilità con i diritti umani dei migranti, ha dimostrato di non funzionare.
Se non bastasse l’aggravamento attuale dell’instabilità strutturale della Libia (il perdurare dell’inumana condizione in cui versano i migranti nei suoi centri di detenzione, la finzione di considerare il Paese come “zona sicura” alla stregua delle regole che la stessa Ue si è data), sarebbe sufficiente a illustrare il fallimento della politica europea di esternalizzazione l’ingloriosa fine dell’accordo del 2016 con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan per bloccare i migranti diretti in Europa dai teatri di crisi in Medio Oriente. Un accordo che, come altri sottoscritti singolarmente da Stati membri, conferisce legittimazioni politiche a regimi che si muovono esplicitamente in una dimensione opposta rispetto ai principi fondativi dell’Ue ispirati al criterio della democrazia e della tutela dei diritti umani.
Il documento dei 5 Paesi mediterranei
Il nuovo allarme su nuovi e ingenti flussi migratori nel Mediterraneo, comunque, è reale e certamente non può ritenersi frutto di eventi eccezionali e destinati a non ripetersi nel tempo. È necessaria, dunque, una presa di posizione urgente da parte delle istituzioni europee, che affronti il tema con risposte strutturali, tornando alle radici del problema che si chiama riforma del regolamento di Dublino.
Rispetto al passato qualcosa si è mosso e ad opera, questa volta, dell’Europa mediterranea nel suo insieme, con l’assunzione di un’iniziativa corale che fa ben sperare sulla nuova consapevolezza del ruolo della parte meridionale dell’Unione nella dialettica politica del continente. Non rappresenta una circostanza ricorrente, infatti, la sottoscrizione da parte dei cinque Stati membri dell’Ue che si affacciano sul Mediterraneo di un documento che rivendica un nuovo patto sulla migrazione e l’asilo.
Invocando l’art. 80 del Tfue che fa del burden sharing, la solidarietà che invoca l’equa ripartizione delle responsabilità, uno dei principi cardine dell’Unione, Italia, Spagna, Grecia, Cipro e Malta, i cinque Paesi che sopportano l’intero carico delle migrazioni via mare in rotta per l’Europa, hanno chiesto alle istituzioni comunitarie di mettere finalmente mano alla riforma dei regolamenti di Dublino, superando il criterio della responsabilità esclusiva in capo allo Stato membro di primo ingresso del richiedente asilo al fine di “garantire una politica migratoria e d’asilo effettiva ed improntata all’equa ripartizione degli oneri tra tutti gli Stati membri, in particolare a fronte di flussi migratori di massa o straordinari”.
Il cuore del documento, articolato in più punti, è la vexata quaestio dell’accoglimento di un meccanismo chiaro, di carattere obbligatorio e automatico, per l’attribuzione della responsabilità sulle richieste di asilo, “fondato su una distribuzione pro quota per ogni Stato membro”. L’obbligatorietà, contrapposta alla volontarietà e la gestione della ripartizione delle quote attraverso un sistema centralizzato a livello europeo, rappresentano l’elemento di novità rispetto al sistema vigente.
Ma, anche al netto di contenuti che pure hanno rilevanza nell’indicare soluzioni concrete a un nodo mai sciolto, la sottoscrizione di quel documento ha un’importanza politica innegabile, perché pone possibili basi per una solidarietà tra Stati sovrani dell’area mediterranea chiamati a completare il disegno di un’Unione equilibrata, perché non favorirebbe così egemonie di una parte sull’altra. Perché l’Europa o è anche mediterranea o non è.