Da Roma al mondo: la riforma della Curia di Bergoglio
La politica estera è contrattazione. Non tanto a livello internazionale, quanto interno. Ciò che si mostra agli altri è ciò che si è deciso di mostrare dopo un lavoro di incastri e smussature. Dire che gli Stati Uniti in Medio Oriente hanno adottato una certa strategia, oppure che Donald Trump si è scagliato contro la Cina, è una riduzione di fenomeni complessi ad un’unica spiegazione. L’esposizione americana nel mondo è frutto di un accavallarsi di posizioni interne e di contrapposizione tra gangli di potere che operano sotto la pelle dello Stato. Un mosaico di dipartimenti e uffici. Da un impero all’altro, poco cambia.
La Santa Sede è per il mondo quel che in seno all’elefantiaco apparato amministrativo della Chiesa cattolica viene generato o frenato. Non è un caso che papa Francesco, sin dal 2013 – anno della sua elezione – abbia avviato un processo di riforma della Curia romana. Cambiare idee per cambiare le azioni: è questo l’obiettivo di Jorge Mario Bergoglio, che insieme al Consiglio di cardinali da lui istituito sta cercando di riformare dal profondo la burocrazia vaticana. La notizia degli ultimi giorni sullo smantellamento di nove società svizzere, con il dirottamento del patrimonio di ciascuna sotto la Profima Société Immobilière et de Participations di Ginevra, è testimonianza di un processo lento ma irremovibile di rinnovamento avviato proprio da Francesco. Nel lungo periodo, l’urbe deve diventare orbe. Da Roma al mondo. Impossibile, mantenendo le istituzioni vaticane così come si presentano oggi.
Uno sguardo verso i nuovi orizzonti della cristianità
Per garantire un futuro alla Chiesa cattolica, Francesco sa di dover uscire dal solco tracciato da Romolo e guardare alle nuove mezzelune fertili della cristianità. Dall’Africa all’America, passando anche per l’Asia. Serbatoi di anime inattingibili conservando una postura appesantita da secoli di solipsismo eurocentrico. Riformare per ritornare nel mondo.
Perno centrale del riassetto bergogliano dovrà essere il nuovo ufficio per l’Evangelizzazione. Quest’ultimo unirà il Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione – nato dieci anni fa per volere di Ratzinger per rinvigorire la fede cristiana nei Paesi di più sensibile secolarizzazione – e la più famosa Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, nota come Propaganda Fide. Eretta nel 1622, oggi è presieduta dal cardinale filippino Luis Antonio Tagle, scelto da Francesco lo scorso dicembre. Il nuovo dicastero sarà il canale principale della Chiesa cattolica. Il mondo dove si muove Francesco non è il mondo di papa Alessandro VI, pontefice in grado di dividere il pianeta in due con la bolla Inter Caetera, condizione necessaria per la firma del Trattato di Tordesillas tra Spagna e Portogallo. La civitas christiana è tramontata, il mutualismo tra Stato e Chiesa esaurito.
L’evangelizzazione, ovvero l’annuncio del Vangelo, è obiettivo primario della Chiesa cattolica. Geopolitica cristiana purissima, che persegue la parola di Cristo: “andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo a ogni creatura”. In questo senso, il titolo della bozza della riforma della Curia vaticana è emblematico: Praedicate Evangelium. Inscindibile, in questo contesto, la missione dalla previsione. Nel 2050, in Africa si troveranno tanti fedeli quanti in Europa e America Latina. Secondo uno studio pubblicato nel 2015 dal Pew Research Center di Washington, i primi dieci Stati per popolazione cristiana saranno Stati Uniti, Brasile, Nigeria, Filippine, Congo, Messico, Tanzania, Russia, Etiopia e Uganda. Neppure un Paese europeo, considerando la Russia non (esclusivamente) tale. Difficile collocare il cuore pulsante dell’azione petrina in un continente sempre meno cristiano.
Maggiore trasparenza per le finanze vaticane
Il sostentamento di questa rinnovata missione sarà garantito anche grazie alla riforma degli organismi economico-finanziari della Santa Sede per una maggiore trasparenza e razionalità nella gestione delle spese, di cui la riduzione di holding svizzere è soltanto il passaggio più recente.
Dal 2013 ad oggi, Francesco ha riformato lo Ior, rinnovandone lo statuto e dando incarichi rilevanti a uomini di fiducia, ha quindi chiuso la Prefettura per gli Affari economici della Santa Sede e dato vita alla Segreteria per l’Economia, inizialmente diretta dal cardinale australiano George Pell – poi travolto dalle indagini per reati di pedofilia, dai quali è stato comunque prosciolto in patria poco più di un mese fa -. Ma non solo. Per garantire la sostenibilità delle finanze vaticane e contrastare la corruzione, papa Francesco ha approvato anche un nuovo codice per gli appalti. Una vera e propria novità all’interno delle mura leonine, che eviterà la frammentazione delle spese da parte degli enti vaticani attraverso un accentramento delle procedure e l’introduzione del principio di concorrenza.
La decentralizzazione verso diocesi e periferie del mondo
Un’innovazione targata Bergoglio che proietta il Vaticano nel mondo globale. Decentralizzazione: da Roma alle diocesi. Non solo burocrazia, ma anche politica. Francesco, nel suo settennato, ha messo mano anche al sistema elettorale vaticano. Non si parla, va da sé, di una rivoluzione. Il prossimo papa sarà eletto dal conclave, nessun dubbio. Ma chi comporrà il collegio elettorale? Ovvero: chi saranno i centoventi cardinali che sceglieranno il successore di Bergoglio? Nei sei concistori del pontefice argentino sono stati creati settanta cardinali elettori. Il criterio principale è semplice: rappresentatività della base. Potere alle diocesi e alle conferenze episcopali, insomma, dove si sperimentano veri e propri passaggi democratici. E anche in questo caso, il destino demografico è un fattore decisivo. Per dare maggiore rappresentatività al conclave, in nome di una Chiesa cattolica davvero universale, occorre dare dignità ai luoghi della nuova cristianità: Nicaragua, Costa d’Avorio, Filippine, Haiti, Tonga, Madagascar, Giappone.
Una redistribuzione necessaria per non marginalizzare le Chiese e i fedeli che, come Francesco, arrivano dalla fine del mondo. Una sorta di democratizzazione del conclave, dunque. Anche questa è riforma bergogliana che nutre (e si nutre) della politica estera papale. Districandosi tra le resistenze e le pulsioni interne dello Stato profondo vaticano.