Con Hoti si avvicina lo scambio di territori tra Pristina e Belgrado?
E così, il piano ha (finora) funzionato. La fiducia ricevuta dal nuovo governo kosovaro di Avdullah Hoti lo scorso 3 giugno ha seguito la defenestrazione dell’unico governo apertamente progressista nei Balcani – quello guidato da Albin Kurti – a opera del suo principale rivale, il presidente della Repubblica Hashim Thaçi.
La vicenda si è consumata con le modalità previste, aprendo la strada a conseguenze potenzialmente critiche per la mappa della regione. Letteralmente.
La Corte, le pressioni e l’opinione pubblica
Come ampiamente previsto, la Corte Costituzionale si è espressa contro l’appello lanciato a inizio maggio da Kurti sulla legalità della nomina di Hoti a capo del governo lo scorso 30 aprile, asserendo – con una sentenza giudicata dubbia da molti commentatori, per quanto scontata vista la permeabilità della Corte ai partiti, specie quello del presidente – che Thaçi non fosse obbligato a sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni. La moss ha bloccato così la strada a quello che da ogni parte veniva previsto come un plebiscito per Vetëvendosje (Vv), il partito di Kurti.
L’appello alla Corte Costituzionale ha così ritardato di un mese la fiducia al nuovo governo, frutto dei disegni di Thaçi, che ha messo insieme la Lega democratica del Kosovo (Ldk, il partito del nuovo premier ed ex partner di coalizione di Kurti, responsabile per la mozione di sfiducia che ne ha causato la caduta a marzo) e altri partiti della vecchia guardia come l’Aak di Hamush Haradinaj, il Nisma di Fatmir Limaj e l’onnipresente Srpska Lista, partito serbo controllato da Belgrado. Pur di permettere la nascita del governo, che può contare su una risicatissima maggioranza (61 deputati su 120), Thaçi sarebbe arrivato a esercitare pressioni personali su un deputato indeciso.
L’operazione di palazzo ha dato una scossa all’opinione pubblica kosovara, che si è schierata in larghissima parte con Kurti e la sua richiesta di elezioni anticipate, e ha lasciato strascichi anche nel Ldk, con la giovane guardia capeggiata dal presidente del Parlamento e vicepresidente del partito Vjosa Osmani, in aperto dissenso rispetto alla leadership di Isa Mustafa. Che la tensione nell’ex provincia serba sia palpabile lo ha dimostrato anche la reazione delle guardie del corpo di Thaçi, che hanno inseguito, picchiato e preso in consegna un attivista di Vv che aveva gridato “ladro!” al presidente mentre quest’ultimo rilasciava una dichiarazione alla stampa dopo il voto di fiducia ad Hoti – voto che è stato accompagnato da manifestazioni di oppositori assiepati davanti al Parlamento di Pristina.
Il nuovo attivismo degli Usa
La nomina del nuovo governo e il successo del presidente Thaçi non segnano la fine del risvolto domestico della crisi: l’esecutivo Hoti dovrà infatti affrontare i contraccolpi economici della pandemia, reggendosi su una coalizione traballante e con un’opposizione agguerrita e forte dell’appoggio popolare. Ciò che più caratterizzerà l’azione (o l’inazione) del governo di Pristina sarà però il motivo stesso per cui esso è venuto alla luce: lasciare spazio libero a Thaçi per portare avanti in tandem col presidente serbo Aleksandar Vučić il piano di normalizzazione delle relazioni tra Pristina e Belgrado, uno schema che, sotto l’egida dell’amministrazione statunitense di Donald Trump, prevede lo scambio di territori: il territorio a nord del fiume Ibar che tornerebbe alla Serbia in cambio della valle di Preševo, regione serba a maggioranza albanese.
La fuoriuscita di Kurti rappresenta quindi un pesante sottoprodotto dell’accelerazione delle dinamiche imposta dal re-engagement statunitense nella questione: qualora il leader di Vv fosse infatti riuscito a riprendere la guida del team negoziale kosovaro, da sempre in mano al premier e solo con Thaçi passato al capo dello Stato, ciò avrebbe rappresentato la fine dei piani tra i presidenti di Kosovo e Serbia. Infatti, è facile immaginare che una precondizione posta da Thaçi all’arrivo di Hoti al potere sia stata l’estromissione del governo dai negoziati con Belgrado.
Appena le elezioni parlamentati del 21 giugno confermeranno, con ragionevole probabilità, la presa dell’Sns di Vučić sulla Serbia, il quadro sarà completo per ricominciare i negoziati, sotto l’egida di una Casa Bianca impaziente di ottenere un successo in politica estera da rivendere in campagna elettorale.
Strada in salita per l’Unione europea
E dov’è in tutto questo l’Unione europea? Riconoscendo che la situazione stava per scivolarle di mano dopo anni di effettiva inazione, Bruxelles ha nominato Miroslav Lajčak, ex Alto Rappresentante in Bosnia-Erzegovina ed ex ministro degli Esteri slovacco, come Rappresentante speciale per il dialogo tra Serbia e Kosovo.
In un momento di confusione nella linea europea – dimostrato dalle parole dell’Alto rappresentante Josep Borrell sul fatto che l’Europa non potesse essere “più cattolica del Papa” qualora Belgrado e Pristina avessero concordato su uno scambio di territori -, Lajčak ha avuto il merito di riportare la barra al centro, dichiarando come tale ipotesi non potesse far parte della cornice negoziale europea. Il cammino, però, è lungo: Thaçi, che ha già dichiarato di non volersi recare a Bruxelles per i negoziati – i quali secondo Lajčak dovrebbero iniziare già entro giugno -, accampando tra l’altro la scusa che sia quest’ultimo sia Borrell provengono da Paesi – Slovacchia e Spagna – che non hanno mai riconosciuto l’indipendenza kosovara.
La strada appare dunque in salita affinché Bruxelles si riaccrediti come valido facilitatore in queste circostanze: l’Unione ha in questo momento meno da offrire, soprattutto a Thaçi, che conta sull’appoggio americano per non finire davanti alla Kosovo Specialist Chamber, creata per indagare i crimini dei paramilitari dell’Uçk durante il conflitto del 1999, e il cui procuratore generale è statunitense.
Le opinioni espresse appartengono unicamente all’autore e non riflettono necessariamente l’opinione della Commissione europea o del Servizio europeo di azione esterna.