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PANDEMIA DI COVID-19

Tra carcere e sanità, tutte le difficoltà delle Filippine di Duterte

11 Mag 2020 - Francesco Valacchi - Francesco Valacchi

Il governo del presidente “sceriffo” Rodrigo Duterte si trova ad affrontare una situazione scottante: ad onta delle eccezionali misure messe in forza e minacciate con il lockdown contro la pandemia Covid-19 nelle Filippine sono stati ufficialmente conteggiati circa diecimila contagi, molti dei quali fra il personale sanitario. Pare che proprio il personale medico e infermieristico sia essenzialmente stato lasciato esposto alla malattia nella prima fase della diffusione, salvo poi rendersi conto della carenza di tali specificità di lavoratori nell’arcipelago.

In marzo il presidente Duterte ha imposto una serie di misure di lockdown selettive e restrittive che a partire dalla metà del mese hanno riguardato soprattutto l’isola settentrionale di Luzon, dove si trova la capitale Manila. Con una popolazione di quasi due milioni di abitanti e la sua area metropolitana che supera i dodici milioni – per non parlare del fatto che è la città con maggior densità di popolazione al mondo -, Manila era apparsa da subito come l’area più esposta alla diffusione del contagio.

Manila città fantasma
Le restrizioni nell’isola maggiormente interessata sono state durissime e le Forze armate sono state immediatamente schierate con l’ordine perentorio di usare la forza anche letale per arrestare eventuali violazioni delle misure di isolamento. Anche i controlli in uscita ed in entrata dall’isola sono stati capillari, seppur nei primi giorni l’organizzazione del governo filippino fosse carente sul terreno soprattutto di mezzi: termometri per la misurazione della temperatura, terminali per il controllo dei documenti e anche i fondamentali dispositivi di protezione dei militari (mascherine e guanti). L’impressione che dà la megalopoli di Manila, specialmente nei quartieri dei servizi e residenziali, dove la vita è completamente azzerata, è di stordimento generale; una vera e propria città fantasma.

La specificità dell’azione del governo di Duterte appare essere la precisa differenziazione tra misure definite di Enhanced Community Quarantine (Ecq) e più permissivo distanziamento sociale. Nel primo caso qualsiasi tipo di attività al di fuori dell’abitazione di residenza è espressamente vietata a parte l’attività lavorativa dei settori strettamente necessari alla sopravvivenza, non è permesso nessun tipo di attività sportiva o di beneficienza ed è consentito fare spesa di beni alimentari una volta al giorno. Nel secondo caso vengono imposte restrizioni meno rigide (ma che azzerano comunque le possibilità di movimenti tra regione e regione a meno di stretta necessità).

A partire da maggio le misure di quarantena più strette sono mantenute, oltre che per la capitale, per l’area centrale dell’isola Luzon e per alcune sue province meridionali e settentrionali; per le province di Pangasinan, di Antique, di Albay, di Cebu e di Davao del Norte; per gran parte dell’isola di Mindoro, per l’isola di Catanduanes; per le città di Iloiolo, Bacolod e Davao. Tale situazione dovrebbe durare sino alla metà del mese, prevedendo, in caso di riduzione dei contagi, successivi allentamenti delle misure.

Scarcerazione di quasi 10mila detenuti
Le principali e più scottanti questioni che deve affrontare il governo di Rodrigo Duterte nell’immediato frangente sono legate alla condizione contingente del personale sanitario e alla sicurezza del sistema carcerario filippino. La Corte suprema ha annunciato la scarcerazione di oltre 9.700 detenuti a scopo preventivo, essenzialmente in attesa di giudizio, per le tragiche condizioni di sovraffollamento delle carceri filippine. Il caso più eclatante di diffusione del virus si è verificato in due istituti detentivi della provincia di Cebu, dove su circa 8mila detenuti ne risultavano contagiati circa 350 al 1° maggio.

La liberazione dei detenuti senza preavviso e senza un’adeguata analisi a priori potrebbe portare a gravi problemi di sicurezza e quantomeno ad una problematica prosecuzione dell’azione penale se molti di loro tentassero di entrare in clandestinità.

Personale sanitario in “fuga” dal Paese
Per quanto concerne la grande problematica del personale sanitario si tratta di una complessa situazione andatasi a corroborare negli scorsi anni: tra l’ultimo decennio del secolo scorso e i primi anni Duemila, la sanità filippina ha subito un eccezionale drenaggio di lavoratori della sanità a favore di Paesi come l’Arabia Saudita, il Regno Unito e gli Stati Uniti (dove ad esempio il personale di origine filippina rappresenta il 4% del totale degli infermieri). L’esilio è dipeso senza dubbio dai salari molto bassi dei professionisti del settore sanitario (dottori, infermieri ma anche semplici operatori di base) e dalla compressione dei loro diritti, come ad esempio la pratica pluriennale di tirocinio obbligatoria soggetta solo a rimborso spese per molti infermieri.

Allo scoppiare dell’emergenza il sistema sanitario filippino si è ritrovato a dover implementare il proprio organico di personale specializzato e ci si è resi immediatamente conto della carenza di personale qualificato nell’arcipelago. Oltre a ciò, le precarie condizioni di molti ospedali e l’iniziale carenza di dispositivi di protezione individuali hanno causato un sensibile numeri di contagi fra medici e infermieri. Duterte e il suo ministro della Salute, Francisco Duque, stanno cercando di porre soluzione alle criticità con misure drastiche (come il blocco totale di personale legato alle professioni sanitarie in uscita dal Paese) e di contenimento, distribuzione di mezzi di protezione e controllo costante delle condizioni di lavoro del personale, ma la situazione sembra tutt’oggi ancora molto complessa.