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GENOCIDIO IN RUANDA

L’arresto di Félicien Kabuga. Una vittoria per la giustizia internazionale

17 Mag 2020 - Filippo di Robilant - Filippo di Robilant

Alla fine tutti i nodi vengono al pettine, anche per i mandanti che non amano sporcarsi le mani. Félicien Kabuga, tra i fuggitivi più ricercati al mondo, con una taglia di 5 milioni di dollari sulla testa, il 16 maggio è stato arrestato in Francia 26 anni dopo i crimini commessi in Ruanda.

Nei cento giorni del massacro di oltre 800.000 tutsi e hutu moderati, il facoltoso imprenditore hutu svolse un ruolo centrale assicurando logistica, mezzi di trasporto e l’approvvigionamento di armi da fuoco per i miliziani dell’Interahamwe e machete e mazze chiodate a chiunque raccogliesse le incitazioni all’odio lanciate dalle frequenze di Radio Mille Collines di cui era l’onnipotente “Monsieur le Président Directeur-Général“.

Nel 1995, un anno dopo il genocidio, sono stato in missione in Burundi e Ruanda con una delegazione della Commissione europea guidata da Emma Bonino. Tracce dei massacri erano ovunque. Le chiese sparse tra le mille colline, dove la popolazione aveva invano cercato salvezza, erano ancora stipate di cadaveri. Visitammo la prigione di Kigali, quella dei presunti génocidaires. Era come entrare in un girone dantesco, le celle piene al punto di rischiare di morire per soffocamento. L’aspetto più impressionante era la giovane età dei detenuti, alcuni poco più che bambini. All’entrata della prigione, in bella vista, c’erano cataste di machete requisiti.

L’arresto di Kabuga rappresenta dunque una vittoria per la giustizia internazionale. Il risultato è stato raggiunto grazie alla collaborazione tra organi giudiziari e investigativi di mezza Europa: un bel segnale per la cooperazione pan-europea. L’imputato sarà consegnato dalle autorità francesi al Meccanismo residuale per i tribunali penali internazionali (istituto creato dalle Nazioni Unite per il completamento dei procedimenti avviati dai Tribunali ad hoc per il Ruanda e per l’ex Jugoslavia).

Due crisi coeve, quella dei Grandi Laghi e quella balcanica che hanno ricevuto due trattamenti diversi da parte della comunità internazionale: di fronte alla pulizia etnica di Milosevic nel Kosovo ci fu l’intervento della Nato, mentre quella ai Grandi Laghi fu sostanzialmente accettata come tragica fatalità. Le Nazioni Unite rimasero a guardare mentre le grandi potenze, soprattutto Stati Uniti e Francia, coltivavano agende geo-politiche diverse tra loro con il risultato di destabilizzare ulteriormente l’intera regione dell’Africa centrale e trasferendo il conflitto nel confinante Congo.

L’operazione militare francese denominata “Turquoise” si trasformò – lo ha puntualmente raccontato Massimo Nava nei suoi reportage (“Ruanda, l’ultimo (?) genocidio”) – in una forza d’interposizione che finì per favorire, con l’esercito hutu in rotta, l’esodo dei carnefici che si mischiavano alle popolazioni di profughi, tra cui molte famiglie di persone trucidate. Così si crearono gli enormi campi profughi di Bukavu e Goma, delle vere polveriere dove si tramavano rivincite e vendette.

Come ha scritto lo storico Pier Paolo Portinaro, la regione dei Grandi Laghi è diventata un concentrato di brutalità etniche soprattutto come frutto dell’eredità coloniale che ha creato un’impressionante assuefazione alla violenza e uno stato quasi permanente di politiche eliminazioniste. A governare sono state chiamate delle élite che si sono poi arroccate in Stati etnocratici dove l’ideologia dell’identità nazionale è spesso sconfinata in razzismo di dominio e poi in razzismo da sterminio.

Quello che è successo in Burundi e Ruanda tra il 1993 e il 1994 non è stato un fatto isolato ma parte di ondate genocidarie sempre più consistenti: negli anni Sessanta oltre 20.000 tutsi furono massacrati dagli hutu in Ruanda, negli anni Settanta nel vicino Burundi ci fu una sanguinosa epurazione di hutu da parte dei tutsi con 80.000 morti. Una catena da interrompere una volta per tutte, con l’obiettivo di evitare che ciò che viene chiamato retributive genocide diventi un ciclo senza fine.

Ai detrattori dei tribunali internazionali e a chi sparge scetticismo a piene mani sul contributo che questi strumenti possono fornire ai fini di una ricostruzione storica condivisa tendente ad appagare la memoria e favorire la riconciliazione nazionale, l’arresto di Kabuga è la migliore risposta.

In che misura il genocidio fu pianificato? Essendone stato tra gli architetti, all’Aja Kabuga potrà fare luce su quest’aspetto. Saperlo è importante per le vittime e per i sopravvissuti, ma è importante anche per il messaggio che manda al mondo: i crimini di genocidio e i crimini contro l’umanità sono imprescrittibili e la fine dell’impunità è essenziale per favorire la convivenza civile, la pace e la sicurezza per tutti.