Il BvG e l’ambiguità dell’ibrido sistema europeo
Sulla sentenza della Corte tedesca (Bundesverfassungsgericht, BvG) e sull’impatto che potrebbe avere per gli interventi della Bce è stato scritto molto. Molto si è detto anche sul conflitto che la sentenza solleva rispetto al potere della Corte di Giustizia europea. Possiamo ragionevolmente pensare che i problemi relativi alla Bce saranno risolti.
Cosa succederà invece del conflitto fra corti? Il BvG ha fatto un gesto di arroganza, ma rapporti fra Karlsruhe e Lussemburgo sono stretti e costanti e nulla lascia pensare che saranno interrotti. Ma quale potrebbe essere l’effetto sulle altre Corti? Cosa succederebbe se le sfide a Lussemburgo si moltiplicassero?
La domanda è seria, ma prima di fasciarci la testa è bene ricordare che il BvG non mette in discussione il principio della supremazia del diritto europeo. Ricorda invece che, non essendo l’Ue una federazione, le sue politiche non possono in alcun modo violare i principi fondamentali delle costituzioni nazionali e che questa limitazione si applica anche alla Corte di Lussemburgo. Il BvG interpreta questo principio in senso molto estensivo, soprattutto negando – lo ha già fatto in sentenze precedenti – che il sistema europeo abbia tutte le garanzie che la Costituzione tedesca richiede perché il processo decisionale possa essere considerato compiutamente democratico.
Le argomentazioni addotte sono sicuramente criticabili, ma dubito che questa preoccupazione sia unicamente tedesca. Non credo per esempio che la Corte italiana rinuncerebbe facilmente, nell’interpretazione dell’art. 11 della nostra Costituzione, alla teoria dei “contro-limiti”.
La domanda di come gestire eventuali conflitti è quindi legittima. Il problema potrà essere risolto solo se e quando diventeremo una federazione. Da parte di alcuni commentatori, la domanda ha avuto una formulazione più insidiosa. Il rifiuto del BvG di attribuire valore assoluto alle decisioni di Lussemburgo può infatti incoraggiare la ribellione di paesi come la Polonia e l’Ungheria, con il paradosso che invocherebbero il parere tedesco con motivazioni opposte: giustificare i loro attentati alla democrazia. Esponenti dei due Paesi non hanno perso l’occasione per esprimersi nello steso senso.
Il dilemma sarebbe insolubile solo se ammettessimo che un conflitto istituzionale è sanabile solo se c’è unanimità. L’Ue è certamente un’unione di Stati sovrani come dice il BvG, ma non nel senso che credono molti sovranisti. Ce lo dice la storia.
Nel 1965 il generale Charles De Gaulle provocò una crisi, detta della “sedia vuota“, per ottenere la sospensione delle disposizioni del trattato di Roma che prevedevano il voto a maggioranza. Lo scontro fu durissimo e si concluse qualche mese dopo con il cosiddetto “compromesso di Lussemburgo“. Si trattò dell’archetipo dei compromessi europei. Si decise che in caso un Paese ritenesse che su una determinata questione era in giuoco un suo “interesse vitale”, le discussioni dovessero continuare. Tuttavia nulla fu detto sulla conclusione del processo, limitandosi a constatare una divergenza fra la Francia e gli altri (che all’epoca erano solo cinque). In pratica però, e per molti anni, si rinunciò a votare. In sostanza il diritto di veto di un Paese, come il gatto di Schroedinger, fu contemporaneamente negato e affermato.
Questa situazione contribuì non poco a rallentare la marcia dell’integrazione, ma permise comunque al sistema di funzionare. Fino a che, nel 1983, la signora Margaret Thatcher prese l’improvvida decisione di porre il veto alla decisione sulla fissazione dei prezzi agricoli con l’intento di forzare la mano agli altri sulla questione del contributo britannico al bilancio. Si decise invece che il veto britannico era pretestuoso e contrario al compromesso di Lussemburgo, perché formulato con motivazioni estranee alla materia soggetta al voto. Si procedette quindi al voto e i prezzi furono approvati. La vicenda ebbe del surreale.
La crisi del ’65 era stata infatti motivata da ragioni ideologiche, ma anche dal timore francese di restare in minoranza su questioni vitali legate alla politica agricola. Ciò che conta che è che fu affermato il principio che il diritto sovrano di un Paese a dichiarare un “interesse vitale” vale solo finché non si scontra contro l’interesse collettivo affermato dagli altri (in quel caso la necessità di fissare i prezzi per gli agricoltori). In pratica il “compromesso” di Lussemburgo continuò a funzionare ancora per alcuni anni, ma l’incantesimo era rotto.
Il precedente è rilevante anche se il contesto di un eventuale conflitto fra Corti costituzionali potrebbe essere molto più grave. È infatti prevedibile che il conflitto sarà risolto dalla percezione che la maggioranza dei Paesi membri avrà dell’equilibrio da stabilire fra rispetto della sovranità nazionale e interesse collettivo.
È chiaro che in vicende del genere contano i rapporti di forza. Polonia e Ungheria, la cui economia dipende per il 3-4% da trasferimenti europei, hanno quindi interesse a sperare che il momento della verità non si presenti. Oppure hanno interesse a rileggere Tucidide e in particolare il “Dialogo dei Meli”.