Burundi: cambio della guardia nella fragile democrazia?
Cinque anni dopo le violente proteste che hanno insanguinato il Burundi a seguito della terza elezione di Pierre Nkurunziza in qualità di presidente, il leader di questo piccolo Paese nel cuore dell’Africa subsahariana ha reso pubblica la decisione di non ricandidarsi alle elezioni previste mercoledì 20 maggio.
Una scelta inaspettata che ha colto molti di sorpresa. Soprattutto ripensando agli avvenimenti di soli due anni fa, quando un referendum, fortemente voluto da Nkurunziza stesso, ha allungato la durata del mandato presidenziale da cinque a sette anni e dato esplicitamente la possibilità all’attuale presidente di ricandidarsi per un quarto mandato.
Il sistema elettorale e i candidati alla presidenza
Nonostante l’emergenza Covid-19 che ha costretto molti Paesi in tutto il mondo a rimandare le tornate elettorali, il Burundi si recherà lo stesso alle urne. Il Paese ad oggi conta solamente diciannove quindici casi confermati di Covid-19 e il presidente si è dimostrato fiducioso sul fatto che le elezioni si possano svolgere normalmente. Questa fiducia è stata confermata il 12 maggio, quando, con una lettera inviata all’Ufficio regionale per l’Africa dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il ministro degli Esteri ha comunicato che i quattro esperti alla guida del gruppo che si stava occupando di organizzare la risposta al Covid-19 avrebbero dovuto lasciare il Paese, in quanto “persone non gradite”.
L’unica misura che è stata adottata riguarda i cittadini all’estero – un numero consistente – che non potranno votare per evitare assembramenti nelle ambasciate e nei consolati. Una scelta che non tutti hanno apprezzato: l’opposizione, in particolar modo, ha chiesto più volte di sfruttare le nuove tecnologie per permettere anche alla diaspora burundese di esprimere il proprio voto.
Il Burundi – 11 milioni di abitanti, la capitale è Gitega – è una repubblica presidenziale e il 20 maggio i cittadini saranno chiamati a scegliere il nuovo presidente e a rinnovare l’Assemblea nazionale, mentre le elezioni del Senato si terranno a luglio di quest’anno. Per la scelta del capo dello Stato è previsto un doppio turno: se nessuno dei candidati al primo turno otterrà almeno la metà dei consensi si terrà un ballottaggio tra i due leader più votati. Se ciò dovesse accadere, i cittadini torneranno al voto il 19 giugno.
L’elezione dell’Assemblea nazionale avviene, invece, su base proporzionale. Il Paese è diviso in 18 circoscrizioni, corrispondenti alle province, e in ognuna di esse gli elettori possono votare mediante il sistema delle liste bloccate. Ciò significa che i votanti non hanno la possibilità di esprimere una preferenza sui candidati e votano per il partito nel suo complesso, rispettando l’ordine di lista da esso scelto. La soglia minima che i partiti dovranno superare per entrare a far parte del nuovo Parlamento è del 2%, calcolato su base nazionale. Inoltre, all’Assemblea nazionale così eletta verranno aggiunti tre membri appartenenti all’etnia twa e saranno cooptati alcuni parlamentari al fine di assicurare una proporzione etnica del 60%-40% tra hutu e tutsi. Il sistema garantisce una rappresentanza femminile pari ad almeno il 30% dei membri.
Non ricandidandosi più Nkurunziza, il Conseil National pour la Défense de la Démocratie – Forces pour la défense de la démocratie (Cndd-Fdd), ha scelto come candidato alla presidenza l’attuale segretario generale, Evariste Ndayishimiye. Uomo di fiducia di Nkurunziza, attualmente a capo del dipartimento per gli affari militari, in passato ha ricoperto anche le cariche di ministro dell’Interno e della sicurezza. Il suo principale sfidante è Agathon Rwasa, leader del Congrés National pour la Liberation (CnlL) ed ex comandante hutu durante la guerra civile. Oltre ai due candidati principali, rappresentanti l’uno del partito di maggioranza e l’altro del maggior partito di opposizione, le elezioni vedranno scendere in campo altri quattro candidati, di cui due indipendenti.
Tensioni etniche e una pace fragile
Come abbiamo appena visto, il Burundi si è dotato di un sistema elettorale tendente a garantire un’adeguata rappresentanza etnica. Le tensioni tra hutu e tutsi sono infatti state una costante nella storia del Paese sin dall’indipendenza. In realtà, le loro radici risalgono al periodo coloniale, quando la Germania prima e il Belgio poi imposero il modello dell’indirect rule, offrendo benefici e ricompense a quella parte della popolazione che si sarebbe occupata per conto loro dell’amministrazione locale. In Burundi i tutsi, in quanto ceto più istruito, furono scelti per svolgere questo compito, dando così avvio ai primi conflitti. Questa vicenda ci permette di comprendere come per molti hutu la lotta per l’indipendenza non fosse semplicemente una lotta contro la potenza coloniale, ma anche una ribellione contro i despoti locali, i tutsi.
Dopo l’indipendenza, ottenuta nel 1962, le tensioni etniche sono rimaste latenti per poi riesplodere nel 1993 con lo scoppio della guerra civile che si concluderà solamente nel 2005. Si stima che essa abbia causato più di 300.000 morti, la fuga di circa un milione di persone nei Paesi vicini e centinaia di migliaia di rifugiati interni.
Fu con la firma del Burundi power-sharing Agreement e l’entrata in vigore della nuova Costituzione che venne riportata la democrazia nel Paese. Le prime elezioni dopo la fine del conflitto, nel 2005, hanno segnato la vittoria del Cndd-Fdd, guidato da Nkurunziza, poi eletto presidente dalle due Camere del Parlamento. Nkurunziza venne poi riconfermato nel 2010 e nel 2015, quando si candidò per la terza volta contravvenendo al limite dei due mandati previsto in Costituzione. Una scelta che in questi ultimi cinque anni è stata motivo di continue proteste popolari, tutte duramente represse nel sangue dagli organi di polizia e dall’Imbonerakure, l’ala militare giovanile del partito del presidente. Le frequenti violazioni dei diritti umani, il protrarsi delle violenze, la loro sistematica repressione e il continuo discredito lanciato sull’opposizione hanno portato molti osservatori a temere per la tenuta della fragile democrazia.
Ora il ritiro del presidente uscente fa sorgere alcuni interrogativi. Sono in molti a chiedersi quale sarà il futuro del Burundi, ma soprattutto a domandarsi se il Cndd-Fdd riuscirà a mantenere il potere con la leadership di Ndayishimiye o se per la prima volta dal 2005 assisteremo a un cambio alla guida del Paese.
A cura di Aurora Guainazzi, autrice della redazione Africa de Lo Spiegone.
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