Un ipotetico ordine internazionale dopo il Covid-19
Sappiamo bene che è difficile prevedere il futuro. Eppure, è anche difficile sottrarsi alla tentazione di guardare oltre l’orizzonte. La pandemia di Covid-19 ci ha sorpreso – vale la pena di ricordarlo – in un sistema internazionale con equilibri incerti, spaesati per la velocità del cambiamento e dei valori.
Il mondo di ieri
All’inizio del secolo l’ordine era facile da capire: il nord del mondo contava ancora in maniera preponderante. Dopo due generazioni di guerra fredda, gli Stati Uniti sembravano essere entrati nel “loro secolo”. Africa e America Latina contavano poco e producevano poca storia. La Cina faceva già progressi da gigante, nascondendosi dietro la narrazione di paese in via di sviluppo impegnato nella ricostruzione. L’India era un passo indietro.
Subito dopo gli Stati Uniti, pur mantenendo il loro primo posto nel mondo, vedevano franare le ambizioni di supremazia assoluta promosse dai “neocons“, a partire dall’infelice avventura irachena. Si cominciò allora a parlare di “tigri asiatiche“: dando uno sguardo alle statistiche, si vide che l’Asia ha un totale di cinque miliardi di abitanti sui sette del pianeta. Abbiamo, quindi, sentito dichiarare che siamo ormai nel “secolo asiatico”.
Molti paesi crescevano velocemente, tanto che 10-12 anni fa si creò il G20, con l’illusione che mettere in piedi una struttura più rappresentativa si traducesse in una migliore governance del mondo. Questa proliferazione di attori, senza contare il peso di fondi finanziari erratici, ha finito con l’indebolire seriamente le istituzioni multilaterali nate dopo la Seconda guerra mondiale. Le quali – diciamolo pure – avevano retto abbastanza bene alle sfide per tre generazioni.
Il mondo di oggi
Ora ci troviamo all’inizio di una nuova era, che parte dall’America first di Trump, a cui fanno eco quei “vengo prima io” dichiarati in giro per il mondo. In un era di abbondanza, sia pure con forti diseguaglianze, ha ripreso forza la visione “noi verso gli altri“, che era rimasta nascosta sotto una sottile vernice di progresso. Si accrescono quindi gli interrogativi sul futuro che ci attende.
Vediamo la Nato perdere gran parte di quella coesione politica che era stata alla base del suo successo, insieme all’interoperabilità fra le forze armate. Washington sembra sopportarla a malapena, additando le povertà dei bilanci della difesa europea e tenendo poco in conto la solidarietà politica degli alleati del vecchio continente. Difficile dire oggi se ritroverà il ruolo storico di collante euro-atlantico, che pure ci auguriamo e che è un segnale di stabilità.
Le Nazioni Unite, che per decenni avevano goduto di indiscusso prestigio, malgrado la loro scarsa efficienza, sembrano ormai fuori gioco, “missing in action” dice qualcuno. Basti pensare alla mancanza di ruolo sostanziale nelle crisi siriana e libica. Banca mondiale e Fondo Monetario Internazionale appaiono a loro volta ormai orientati verso un ruolo puramente tecnico.
Non abbiamo fin qui parlato dell’Unione Europea. Il nome può indurre in confusione, poiché non si tratta di una vera Unione come gli Stati Uniti. Ha un misto di competenze, cresciute lentamente negli anni in una serie di complessi negoziati, le quali convivono accanto alle competenze nazionali che, guarda un po’, corrispondono proprio alle cose oggi più importanti: emigrazione, salute, economia, politica di difesa.
Sia ben chiaro che non è una critica all’europeismo, vuole solo essere un richiamo ai lettori del fatto che il processo iniziato nel 1958 con il Trattato di Roma sia rimasto a metà strada e che vada visto con realismo. Ricordiamo che fino a non molti anni fa la principale politica, che assorbiva più della metà del bilancio comunitario, era quella agricola. Difficile pretendere oggi che una serie di 27 governi trovi facilmente posizioni comuni su materie altamente controverse e vitali all’interno di ogni paese. Comunque, questo non vuol dire che il progetto vada abbandonato, né che il sistema esistente non comporti comunque dei vantaggi.
Il mondo di domani
Se guardiamo a un ipotetico ordine internazionale dopo la pandemia, viene facile pensare che i paesi asiatici che ne stanno uscendo per primi godranno di un vantaggio.
La Ue avrebbe tutto da guadagnare da una politica estera e di difesa: se si cede alla tentazione di “ognuno per se”, si sarà inevitabilmente perdenti. I nostri concittadini dovrebbero ricordare gli slogan: “vittoria mutilata” per la Prima guerra mondiale e “noi tireremo dritto” della Seconda. Portiamo ancora le cicatrici dei disastri che comportò quell’isolamento nel voler far da soli.
Conviene quindi decisamente battersi dall’interno per migliorare le cose. Dal punto di vista di una Europa della Difesa, il maggior ostacolo sta oggi nella regola dell’unanimità che impedisce il passaggio a effettive politiche operative. Nel mondo di domani non basterà quel dignitoso “soft power” di cui adesso l’Europa dispone, ma di una vera capacità di difesa che sia realmente credibile.
In caso contrario si finirà per diventare satelliti di altri, come la Cina o la Russia, e nessuno Stato europeo potrà competere da solo in un mondo dove la politica di potenza ridiventa la regola.
Questo articolo è il secondo di una serie dedicata a una riflessione sul Covid-19 e la sicurezza internazionale, aperta da Vincenzo Camporini e Michele Nones.