Tradizionalisti uniti: il “problema americano” di Bergoglio
Kenneth Copeland, sul proprio canale YouTube, ha dato esecuzione alla sentenza (“execute judgment”) contro il coronavirus, schiacciato dal piede di Dio, così da rendere gli Stati Uniti “nuovamente sani e prosperi” (“healed and well again”). Grazie a quel video e a molti altri dello stesso tenore, Copeland, uno dei più famosi – e abbienti – pastori evangelici d’America, è salito alla ribalta della cronaca nazionale ed internazionale per le sue frasi sull’epidemia in corso. Dalla granitica certezza che, presto, l’emergenza sanitaria si esaurirà alla rivendicazione di aver definitivamente distrutto il virus, Copeland ha acceso i riflettori sul mondo opaco dei cosiddetti televangelist, i predicatori televisivi – ma anche, in senso ampio, del web – che, negli ultimi anni, hanno acquisito un peso notevole nelle dinamiche politiche statunitensi.
Non è un mistero, del resto, che parte del successo elettorale di Donald Trump nella campagna presidenziale del 2016 sia dovuto al sostegno pressoché incondizionato dei cristiani evangelici statunitensi, un gruppo religioso ampio e dai confini non ben definiti che, nel tempo, ha inglobato al suo interno anche la componente più tradizionalista dei cattolici americani. Le analisi, una volta chiuse le urne, hanno fatto oscillare l’assoluto predominio dell’attuale presidente degli Stati Uniti tra i cosiddetti white evangelical tra il 79 e l’81%. Un plebiscito che, spesso, è risultato essere decisivo per la vittoria negli swing States, chiavi di volta nella cervellotica architettura del voto all’americana. Per Trump, trascurare questi dati nella formulazione e nell’attuazione della propria agenda sarebbe – soprattutto in vista del nuovo appuntamento elettorale – un vero suicidio politico.
L’epidemia globale di coronavirus non sfugge e non è sfuggita a questo schema. Non sorprende fino in fondo, dunque, che molte delle posizioni espresse da Copeland e da altri televangelist e predicatori cristiano-evangelici siano quelle del presidente degli Stati Uniti e, per la verità, di una buona parte della popolazione americana. In questo senso, il coronavirus non ha assunto tanto la funzione di sisma, quanto di sismografo, registrando faglie e scosse che, sotto la crosta terrestre della politica quotidiana, vanno avanti da anni.
Chiese aperte in Stati aperti
L’ultima uscita di Trump contro la fine anticipata del lockdown decisa dal governatore repubblicano della Georgia Brian Kemp non illuda. Del resto, i tweet di appena una settimana fa hanno un tono del tutto diverso: Liberate Minnesota, Liberate Michigan, Liberate Virginia. Come sanno anche Oltreoceano, verba volant, scripta manent. Non è un mistero, infatti, che l’amministrazione Trump non sostenga la strategia del lockdown all’italiana. Alle grandi potenze, il mondo e la storia non fanno la cortesia di aspettare la conclusione di una quarantena. La Cina, mentre segregava in casa appena il 4% della propria popolazione, non ha arrestato la propria economia in nome della salute.
Alle ragioni di calcolo si accompagnano anche quelle di pancia. A metà marzo Robert Jeffress, pastore evangelico della First Baptist Church di Dallas, aveva fatto intendere che l’epidemia in corso è una piaga scatenata contro i peccati dell’umanità. Jeffress, che è anche tra le voci religiose più ascoltate da Trump stesso, non è il solo ad identificare il coronavirus come una punizione divina, presagio di quell’apocalisse che costituisce il leitmotiv della narrazione cristiano-evangelica.
Non è sufficiente, dunque, tenere aperti gli Stati, ma anche le chiese, in modo da placare l’ira divina. Jeffress e Copeland si sono già espressi in questo senso. Anche per questo, la chiusura dei luoghi sacri in Italia e la solitudine di papa Francesco in piazza san Pietro di qualche settimana fa non sono sfuggite agli osservatori statunitensi e cristiano-evangelici. Trovando in Bergoglio – ancora una volta – un bersaglio e un colpevole.
Il problema americano
Dal 2013, anno di elezione di papa Francesco, l’universo ultra-cattolico ed evangelico degli Stati Uniti è in fermento. La contrapposizione tra l’afflato terzomondista di Bergoglio e l’orientamento ortodosso del cattolicesimo americano – e americanizzato – si è manifestata sin da subito. Le pulsioni profonde che hanno scosso la politica a stelle e strisce nel 2016, almeno in questo senso, non hanno certo rappresentato una novità. Anzi: il rapporto tra Washington e Santa Sede è storicamente conflittuale. La calma apparente della convivenza tra Barack Obama e Francesco è da considerarsi come parentesi e non come prosecuzione.
Bergoglio ne è consapevole. Come riportato da Jason Horowitz sul The New York Times, poco dopo la sua elezione, di fronte ad alcuni diplomatici accreditati presso la Santa Sede che gli richiedevano particolare cautela sulle nomine dei vescovi negli Stati Uniti, Bergoglio avrebbe ammesso che sì, l’America avrebbe fatto grande resistenza alle sue riforme. Così è stato.
L’epidemia di Covid-19 non ha fatto altro che dilatare la distanza oceanica tra Stati Uniti e Santa Sede. Specialmente nelle frange ultraconservatrici. Queste ultime, infatti, attraverso i principali siti della destra cattolica ed evangelica del Paese – su tutti, Lifesitenews – non hanno esitato a mettere in relazione l’emergenza sanitaria come punizione divina alle presunte eresie del messaggio di papa Francesco. Per sferrare l’attacco, l’informazione dei reazionari evangelico-cattolici ha fatto affidamento a vecchi cavalli di battaglia: l’aborto, la sessualità e il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Accusando il pontefice di colpevole mollezza su questi temi.
Ecco, dunque, che la pandemia non è sisma, ma sismografo. Le fratture più profonde non si ricompongono, ma si ripresentano. Anche – e soprattutto – in un periodo come questo. Allo slogan “niente sarà come prima”, il problema americano, per la Chiesa cattolica, farà quasi certamente eccezione.