Orbán e il contagio delle democrazie
Con tutta l’attenzione mediatica concentrata sulla diffusione della pandemia di Covid-19 in Europa e nel resto del mondo, una piccola ma significativa notizia è quasi passata sotto silenzio. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha condannato tre dei quattro Paesi del gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca) per violazione della legge comunitaria e li ha quindi resi passibili di una consistente multa. La vicenda si riallaccia al rifiuto di quei paesi di accogliere al proprio interno una piccola quota dei 160.000 immigrati che nel 2015 affollavano i centri di ricovero in Italia e Grecia.
Mentre la Repubblica Ceca si limitava a una simbolica accoglienza di 12 rifugiati su una quota totale di 2.000, Varsavia e Budapest chiudevano ermeticamente le frontiere. Non era solo la mancanza di solidarietà a preoccupare il resto dell’Unione e delle sue istituzioni, ma il fatto che era stata violata una regola comunitaria: quella di una decisione di ricollocamento degli immigrati sulla base di un voto a maggioranza qualificata all’interno del Consiglio dei ministri degli interni dell’epoca. Pur con il voto contrario dei tre paesi in questione, la decisione era stata presa secondo le regole comunitarie e quindi era diventata direttamente vincolante per tutti i membri dell’Ue, compresi quelli che avevano votato contro.
Facile quindi per la Corte arrivare al verdetto di condanna dei tre governi, che, sulla base di supposti pericoli alla propria sicurezza interna, a causa di eventuali terroristi celati fra i rifugiati, si erano rifiutati di applicare la legge comune.
La pubblicazione di questa sentenza si colloca in un periodo in cui tutti i paesi dell’Unione sono alle prese con l’emergenza Covid-19. Nella dura battaglia contro la diffusione del virus le nostre democrazie hanno preso misure di emergenza straordinarie. Misure che hanno perfino toccato libertà e diritti “inalienabili” degli individui, ma con due garanzie ben precise. La prima è che si tratta di interventi a tempo. La seconda è che i decreti e i provvedimenti legislativi conseguenti passano al vaglio e approvazione dei parlamenti nazionali. Ma all’interno dell’Ue, che sulle libertà individuali ha costruito la propria identità, vi è chi approfitta di questa emergenza per consolidare il proprio potere personale.
Riecco infatti il solito Viktor Orbán, primo ministro ungherese. Con un colpo di mano reso possibile dalla sua stragrande maggioranza in parlamento, Orbán ha fatto passare con 137 voti favorevoli e 53 contrari una legge che definire liberticida appare un eufemismo. Infatti, con la scusa della lotta al coronavirus il leader ungherese ha ottenuto per sé poteri di decretazione esclusivi, senza cioè essere obbligato a passare per l’approvazione parlamentare. In più la nuova legge non fissa alcun termine a questo potere emergenziale, permette al presidente di sospendere leggi precedenti, commina pene severissime per la stampa in caso di notizie che il governo giudichi inappropriate. Secondo un’analisi di una professoressa ungherese negli Usa, Eva S. Balogh, questo nuovo “enabling act” voluto da Orbán ha già dato vita a ben 15 decreti “presidenziali”, nessuno attinente alla lotta contro il coronavirus.
Apparentemente questi decreti si occupano di questioni prive di senso, dalla costruzione del quartiere dei musei a Budapest alla programmazione teatrale. In realtà essi tendono ad accentrare nelle mani del primo ministro tutte le decisioni relative alle questioni in oggetto, sottraendole ai comuni che erano gli unici competenti nelle materie. Il senso politico dell’operazione diventa fin troppo evidente. Nelle elezioni comunali dello scorso ottobre gran parte dei sindaci sono stati espressi dall’opposizione al partito Fidesz di Orbán. Un vento di “liberazione”, che si era esteso a tutti i paesi del gruppo di Visegrád tanto da dare vita ad un gruppo di sindaci democratici nelle quattro capitali dei rispettivi paesi, da Varsavia a Praga, da Bratislava alla stessa Budapest: il cosiddetto “Patto delle città libere”. Di fronte a questa sfida, la risposta di Orbán sta proprio in questa nuova legge.
Insomma, Viktor Orbán è riuscito nel suo intento, lungamente e apertamente dichiarato, di dare forma definitiva a un regime autoritario di “democrazia illiberale”, all’interno dell’Unione europea.
Eppure, tutta presa dalla guerra al coronavirus, la reazione dell’Ue alla sfida di Orbán è stata complessivamente moderata. Tredici Paesi, fra cui l’Italia, hanno condannato pubblicamente la decisione ungherese e le stesse istituzioni comunitarie, a cominciare dalla Commissione, si sono limitate a deprecarla. Il Ppe, il partito dei cristiano-democratici europei, è riuscito qualche mese fa solo a sospendere la partecipazione di Fidesz alle istituzioni del gruppo, ma non ad espellerlo e neppure oggi ha dimostrato l’intenzione di farlo.
Fa in effetti fatica a farsi strada la comprensione della gravità della mossa ungherese per l’intera Unione e per la sua credibilità interna e internazionale. La sfida di Orbán non è da sottovalutare perché mette in forse uno dei pilastri su cui si fonda l’Ue, cioè il suo carattere democratico, che non è solo quello delle sue istituzioni rappresentative (Commissione e Parlamento), ma anche e soprattutto dei suoi paesi membri. Va infatti ricordato che l’Unione nasce per evitare il riprodursi in Europa delle dittature del passato e per allontanare in via definitiva il rischio di un ritorno del nazionalismo nel nostro continente.
L’atteggiamento autoritario di un paese come l’Ungheria (e della Polonia, anch’essa in odore antidemocratico) non fa che riproporre fantasmi del passato. Ed oggi la sfida nazionalista si ripropone con la scusa del blocco dei confini e delle libertà per combattere il coronavirus. Non basta quindi la condanna della Corte di Giustizia sulle regole comunitarie da rispettare. Occorre un soprassalto politico. Altrimenti oltre al contagio del coronavirus, l’Unione rischia pure il contagio alla propria democrazia.