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Cara AI Ti Scrivo

L’impatto del coronavirus sulla Turchia di Erdoğan

19 Apr 2020 - Carlo Sanna - Carlo Sanna

La pandemia di Covid-19 sta dilagando in maniera consistente anche in Turchia, dove la curva dei contagi cresce a un ritmo tra i più alti del mondo. Inoltre, l’Associazione dei medici turchi e vari osservatori sollevano dubbi sulla veridicità dei dati ufficiali, che non rispecchierebbero i reali contagi e decessi. Eppure, di fronte a ciò, il governo continua a esaltare il modello turco di risposta sanitaria. Dal lato delle misure di contenimento, invece, pur potendo contare sulle esperienze pregresse degli altri Stati (essendo stata colpita più tardi rispetto al resto d’Europa), Ankara naviga ancora a vista centellinando nuovi provvedimenti.

Ancora non è stato imposto un lockdown duraturo su tutto il territorio nazionale, ma solo misure contingenti la cui efficacia è stata contestata da più parti. L’ultima di queste, in particolare, ha destato enormi criticità: il coprifuoco imposto nel weekend tra il 10-12 aprile nelle 31 maggiori città è stato annunciato dal ministro degli Interni Süleyman Soylu poche ore prima della sua entrata in vigore, la notte del 10 stesso, senza fornire alcun dettaglio operativo o preavviso (neanche agli stessi sindaci) e scatenando il panico nelle città, provocando un assalto in massa ai negozi di alimentari in violazione a tutte le norme di distanziamento sociale. Dopo l’episodio, Soylu ha presentato le proprie dimissioni, respinte dal presidente Recep Tayyip Erdoğan, che all’inizio della settimana ha annunciato che la Turchia avrebbe proseguito con il coprifuoco anche nel weekend successivo, quello del 18-19 aprile.

Tensioni nel governo e la polarizzazione della società
Ciò è sintomo della tensione politica in una Turchia in cui la spaccatura non è solo tra maggioranza e opposizione, ma anche all’interno del governo stesso. Da una parte la linea di Erdoğan: rimandare il più possibile il lockdown nazionale, cercando di isolare i focolai locali e invitare i cittadini a un “isolamento volontario”, al fine di rallentare il più possibile il blocco di produzione ed export. Il timore è il tracollo dell’economia, già in grande difficoltà dalla crisi economico-finanziaria del 2018. Dall’altra parte, non solo le opposizioni, ma anche qualche membro del governo (a uno dei quali – il ministro dei Trasporti Mehmet Cahit Turhan – è stato revocato l’incarico) si oppone alla “quarantena volontaria”, chiedendo misure più estese. Nel mentre, sono sempre più evidenti le tensioni tra i ministri: soprattutto tra Fahrettin Koca (Salute) e Soylu (Interni), e tra quest’ultimo e Berat Albayrak (genero e “delfino” di Erdoğan, a capo delle Finanze).

La crisi sanitaria si inserisce in un contesto in cui Erdoğan era già in crescente difficoltà, tanto sul piano economico quanto su quello politico: dopo la sconfitta elettorale del 2019 nelle città più importanti,  Istanbul inclusa, il suo Akp ha subito due scissioni consecutive e un calo di popolarità nei sondaggi, pur rimanendo il primo partito per preferenze. Oltre a ciò, anche la politica estera stava registrando risultati sempre più negativi per Erdoğan: la sua scelta di optare per alleanze a geometria variabile tra Russia, Unione europea e Stati Uniti, già nel mese di febbraio mostrava tutta l’equivocità dell’intesa con Mosca e conseguenze avverse agli interessi turchi. Come ogni crisi, anche questa avrà degli effetti incogniti, ma potenzialmente decisivi anche per il futuro del collocamento internazionale della Turchia.

Possibili risvolti sul collocamento internazionale di Ankara
Il processo di integrazione europea della Turchia è più che mai in discussione. L’ultimo incontro tra le due parti prima della pandemia aveva avuto come oggetto il controverso accordo sui migranti del 2016, simbolo di tutto ciò che non va nelle relazioni bilaterali, tenute in piedi ormai quasi esclusivamente dall’aspetto economico. Che è, infatti, il vero contenuto di quell’accordo: una cessione di denaro ad Ankara per allontanare il problema, non una cooperazione politica e strategica sulla sua risoluzione. È necessario che si torni ai processi di inizio Duemila, quando l’attrattività economica dell’Ue e il rafforzamento dei rapporti venivano condizionati con successo (seppur limitato) all’estensione dei diritti e delle dimensioni democratiche in Turchia. Lo è tanto più se si considera la portata epocale del momento storico.

Sembrano infatti ripresentarsi tutti gli elementi che, secondo l’economista della Koç Üniversitesi Ziya Öniş, hanno determinato i maggiori stravolgimenti politici degli ultimi decenni in Turchia. Una crisi economica interna (in corso dal 2018), un’alterazione delle dinamiche e dei paradigmi internazionali (accelerati dall’epidemia stessa, con un crescente ruolo della Cina come potenza globale), l’affermarsi di una leadership interna e di nuove coalizioni politiche coerenti con questi paradigmi. A inizio Duemila questi fattori furono affrontati nel segno dell’adesione all’Ue, percepita come fonte di prosperità e sviluppo. Ma oggi, per affrontare il post-epidemia, la flebile prospettiva di piena integrazione nel mercato unico europeo non è più sufficiente, soprattutto se non accompagnata da volontà politica e lungimiranza da parte di Bruxelles. Anche perché, specialmente dopo il fallito golpe del 2016, la stretta autoritaria che ha allontanato Ankara dall’Europa l’ha portata a trovare nuove sinergie con Pechino.

Al di là degli squilibri nella bilancia commerciale tra i due Paesi, le relazioni sembrano attraversare un nuovo corso, orientato ad appianare le frizioni e approfondire la comprensione reciproca. La Cina può contare sui massicci investimenti della Belt and Road Initiative che – a differenza dei fondi Ue – non sono sottoposti a condizionalità e attuazione di riforme. Tuttavia, l’Unione europea è ancora il primo partner commerciale della Turchia, è ancora una prospettiva auspicata dall’opposizione e da una buona parte della società turca: a partire da questi importanti elementi, ha ancora la possibilità di incidere positivamente sul futuro della Turchia e delle relazioni bilaterali. È una sfida storica, che non può essere più rimandata.

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