La Pasqua del “Papa confinato” e le parole sull’Ue
Una celebrazione di passaggio per un momento di passaggio. La messa di Pasqua di papa Francesco, che ha rinunciato al rito del Resurrexit e ha preferito un momento di silenzio all’omelia, segna una rottura senza precedenti nelle celebrazioni della Chiesa cattolica. L’emergenza sanitaria mondiale in corso aveva già rimodulato il cerimoniale vaticano durante la Quaresima, il periodo più importante per la cristianità: dalla preghiera solitaria di Bergoglio di fronte a una piazza san Pietro totalmente vuota alla Via Crucis immersa nel silenzio di due giorni fa. Anche ieri, come già in quelle occasioni, sull’altare erano esposti l’icona di Maria Salus Populi Romani e il Crocifisso di san Marcello al Corso.
Queste celebrazioni, però, sono solo un effetto collaterale di un passaggio che, nel vicino futuro, riguarderà l’assetto sociale, politico ed economico a livello globale. La Pasqua, in un certo senso, assume oggi un significato che travalica la dimensione prettamente religiosa: il termine ebraico Pesach, “passaggio”, riesce a descrivere anche la prossima ed inevitabile alterazione dell’equilibrio internazionale. Un momento di rottura che, utilizzando il lessico del filosofo tedesco Karl Jaspers, potrebbe essere sintomo di una nuova età assiale, ossia di rinnovamento dell’umanità intera, in grado finalmente di superare i rischi intrinsecamente connessi all’incapacità di controllare e governare quei processi che gli stessi uomini hanno innescato.
La società limitata
In una recente intervista di Austen Ivereigh a Francesco, il pontefice è stato descritto come “il Papa confinato”. La pandemia di Covid-19 ha violentemente messo a nudo i limiti della società globale. Limiti che papa Francesco ha spesso denunciato nel suo settennato sul soglio di Pietro e che, nella sua narrazione internazionale, ha spesso indicato come principali cause della conflittualità mondiale.
Innanzitutto, la diffusione esponenziale del virus ha dimostrato come la società immaginata e – in parte – realizzata dal capitalismo internazionale, composta dalla sovrapposizione di entità separate e non comunicanti, non sia sostenibile. L’individualismo sfrenato su cui si basa l’architettura neoliberista è, parafrasando il titolo di un famoso scritto kantiano, valido per la teoria, ma non per la pratica. L’interconnessione tra gli esseri umani e l’ambiente circostante in cui essi interagiscono – la “casa comune” di cui papa Francesco parla a lungo nell’enciclica Laudato Si’ – non può essere semplicemente aggirata grazie all’implementazione di un sistema economico e sociale che ne nega la rilevanza. I legami sociali, prima ancora di quelli economici, costituiscono lo scheletro di qualsivoglia dinamica umana.
Il riferimento, qui, non è solo ai singoli individui. Durante l’Urbi et Orbi, Francesco ha condannato l’egoismo e il particolarismo degli Stati membri dell’Unione europea, che oggi si trova di fronte ad una sfida epocale. Solo attraverso uno spirito di solidarietà e di condivisione il progetto di unità continentale può superare questa emergenza sanitaria: “Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative”.
In secondo luogo, il predominio di una teleologia economicista, che indirizza le comunità umane verso il profitto come fine unico, è stato messo in discussione dopo decenni di cieca fiducia nel progresso illimitato del genere umano. Appena un paio di mesi dopo la sua elezione, papa Francesco si era già scagliato contro questo ideale: “Il denaro deve servire, e non governare”. Ancora, nella Laudato Si’, Bergoglio scrive come la crisi finanziaria dei mutui sub-prime rappresenti un’occasione persa da parte dei governi: doveva essere quello il momento di “sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici” e di porre politica ed economia “al servizio della vita, specialmente della vita umana”.
La società dei limiti
Il passaggio di papa Francesco è quello che porta l’umanità da una società limitata a una società dei limiti. Ovvero, da una società dove le colonne d’Ercole siano drammaticamente scoperte durante crisi mondiali come quella di oggi a una società consapevole dei propri limiti e della finitudine della condizione umana.
La nostra casa comune, troppo spesso considerata come una inesauribile fonte di risorse e ricchezze, anziché come luogo da valorizzare e da vivere, richiede un nuovo paradigma per le relazioni umane e, di conseguenza, le relazioni internazionali. Alla frenetica libertà dei mercati occorrono dei limiti, che salvaguardino e garantiscano quei beni pubblici – come, appunto, la salute globale – che non possono essere sottoposti alla logica di produzione e profitto. Anche per questo, il ritorno dello Stato come soggetto cardine nell’articolazione delle politiche economiche è, in queste settimane, un tema ricorrente.
Questo cambio di paradigma non deve, però, essere inteso come attacco acritico della globalizzazione. Nel 2015, a Filadelfia, nel cuore della potenza globale per eccellenza – gli Stati Uniti – papa Francesco specificò come la globalizzazione non possa essere ritenuta “cattiva”. Al contrario, essa, quando si presenta come tendenza alla globalizzazione che unisce gli esseri umani in modo trasversale e dunque trascendente rispetto agli Stati, è “buona”. Ma quando quest’ultima pretende di assoggettare interamente le relazioni umane e, infine, anche la politica all’economia e alla finanza, allora la globalizzazione è degenerazione.
Occorre, per papa Francesco, riscoprirne i limiti e le possibilità: è un passaggio complicato, ma necessario.