La minaccia delle barriere commerciali per la salute pubblica
La crisi sanitaria globale scatenata dalla pandemia di Covid-19 ha immediatamente mostrato le carenze dell’offerta mondiale di prodotti e attrezzature mediche essenziali e condotto, nel giro di poche settimane, all’adozione di provvedimenti restrittivi di politica commerciale da parte di un numero crescente di Paesi esportatori.
Questi atti unilaterali hanno preso la forma di veri e propri bandi o altre misure restrittive alle esportazioni (richiesta di autorizzazioni e minacce di revoca delle licenze ai produttori locali, oltre all’imposizione di agenzie statali quali acquirenti unici) di prodotti e medicinali vitali nella gestione della pandemia che vanno dai disinfettanti e i prodotti per la sterilizzazione alle mascherine, i ventilatori per l’ossigenazione ed il materiale per l’intubazione. Questi ostacoli agli acquisti dall’estero di dotazioni anti-Covid-19 sono attualmente adottati da 54 governi a livello mondiale.
Stati Uniti e Unione europea rischiano di dover affrontare una minaccia inedita alla salute pubblica dei rispettivi Paesi con una dotazione di apparecchiature e equipaggiamenti medici indispensabili che rischia di essere compromessa da approcci di politica commerciale diversi, seppure accomunati da un principio discriminatorio nei confronti delle produzioni estere che rischia di rilevarsi controproducente in questa fase di emergenza pandemica.
Le guerre commerciali di Trump indeboliscono la risposta Usa
Il 10 e 12 marzo scorsi, il presidente Usa Donald Trump ha, sommessamente e in maniera temporanea, sospeso i dazi imposti su alcune importazioni dalla Cina. Tuttavia, queste azioni del rappresentante del Commercio degli Stati Uniti non rientrano nell’attuazione della cosiddetta “fase uno” dell’accordo commerciale con la Cina siglato lo scorso 14 gennaio, ma interessano esclusivamente alcune categorie di prodotti medici colpite da dazi compresi tra il 10% e il 25% a partire dal 2018.
Nella fase iniziale della diffusione del contagio negli Usa, esse hanno rappresentato un riconoscimento implicito da parte dell’amministrazione Trump della pericolosità della guerra commerciale condotta contro la Cina per la sanità pubblica statunitense. La contrazione delle importazioni dalla Cina di prodotti medici necessari per il trattamento di Covid-19 è stata pari a 200 milioni di dollari (-16%) in seguito all’introduzione delle tariffe americane . Quindi, la guerra commerciale con la Cina si è tradotta in un peggioramento dei costi di approvvigionamento per il sistema sanitario statunitense dei mezzi necessari per la gestione della pandemia, dovuto soprattutto alle difficoltà di reperire nel breve-medio termine produttori alternativi in Paesi terzi o avviare la produzione negli Usa mantenendo gli standard di qualità e sicurezza richiesti dalla Food and Drug Administration (Fda).
Inasprimenti nei costi di reperimento sono inoltre provocati dal mantenimento dei dazi al 25% su $100 milioni di input intermedi provenienti dalla Cina. Senza considerare che la politica commerciale aggressiva degli ultimi tre anni mette in pericolo anche le relazioni con fornitori terzi di attrezzature mediche in una fase di spirale protezionistica caratterizzata, come detto, da un ricorso diffuso a misure di restrizione alle esportazioni.
L’Unione europea nella lotta alla pandemia
Il 15 marzo 2020 la Commissione Europea ha adottato il Regolamento di esecuzione 2020/402 col quale subordina l’esportazione di dispositivi di protezione individuale specifici (occhiali e schermi protettivi e facciali, mascherine e indumenti protettivi) all’acquisizione di un’autorizzazione di esportazione, al fine di garantire il soddisfacimento della domanda interna in un contesto di crisi sanitaria .
Il provvedimento è stato accolto come un necessario atto di solidarietà europea, adottato nelle settimane più critiche per il sistema ospedaliero italiano, impegnato a fronteggiare carenze significative di attrezzature mediche cruciali, e in risposta ad iniziative unilaterali di restrizione delle esportazioni intraprese da alcuni Stati Membri (Francia, Germania e Repubblica Ceca) all’inizio del mese di marzo. L’iniziativa della Commissione Europea però, seppure giustificata da precedenti azioni restrittive di alcuni paesi fornitori del mercato dell’Unione, rischia di causare involontariamente costi considerevoli per le economie europee e soprattutto di minacciare la dotazione di equipaggiamenti adeguati dei sistemi sanitari europei di fronte all’emergenza coronavirus.
In primo luogo, le catene produttive europee di prodotti medici essenziali si avvalgono di parti e componenti che sono oggetto di scambi transfrontalieri extra-Ue anche multipli, con la conseguenza che politiche commerciali protettive a fini sanitari possano determinare un’interruzione o altri effetti difficili da prevedere lungo le diverse fasi di lavorazione del processo produttivo. Sebbene limitato nel tempo, il provvedimento della Commissione introduce nella sostanza una nuova barriera commerciale per le imprese europee esportatrici, in termini di tempi amministrativi e impegno di risorse umane e finanziarie per la richiesta di autorizzazione all’esportazione. Tali ostacoli aggiuntivi di natura non tariffaria contrastano con le correnti esigenze di rapido adeguamento della capacità produttiva di prodotti medici cruciali per le cure dei pazienti affetti da Covid-19.
Le conseguenze delle limitazioni europee potrebbero essere enormi per i paesi più poveri, che dopo aver concesso una progressiva apertura dei propri mercati alle importazioni di prodotti esteri, potrebbero ritrovarsi, nel pieno di un’emergenza sanitaria, tagliati fuori dall’accesso alle forniture globali di equipaggiamenti medici essenziali. Tra i paesi che acquisiscono più della metà della dotazione complessiva di protezioni facciali dall’Ue e che risulterebbero maggiormente colpiti dalle restrizioni si trovano in particolare alcuni paesi dell’est Europa (Albania, Macedonia, Serbia, Moldavia, Bosnia-Erzegovina e Ucraina), nord Africa (Tunisia, Marocco e Algeria) e Africa subsahariana (Capo Verde, Senegal, Repubblica Democratica del Congo, Niger, Angola e Nigeria).
La globalizzazione è morta, lunga vita alla globalizzazione!
Secondo alcuni osservatori, il Sars-CoV-2 rappresenterebbe un “enorme stress test per la globalizzazione” . Il blocco delle catene globali del valore, il moltiplicarsi di misure protezionistiche e la chiusura delle frontiere mettono in discussione il modello di interconessione economica globale dominante in un’epoca di crescente ascesa delle idee sovraniste.
Le prime lezioni dalla pandemia globale di Covid-19 mostrano, tuttavia, come non solo le barriere tariffarie di Trump, ma anche le restrizioni agli scambi commerciali recentemente introdotte dall’Ue, si rivelino controproducenti per la salute pubblica nazionale e globale. Il nazionalismo economico sottostante non solo compromette la qualità e l’accessibilità della dotazione di apparecchiature ed equipaggiamenti cruciali nella lotta al coronavirus, ma la stessa sicurezza nazionale, se si considera che il lockdown, nel tentativo di limitare la diffusione del virus, può arrivare a coinvolgere anche l’intero sistema produttivo di un Paese.
La cooperazione e il coordinamento globale appaiono come le uniche opzioni percorribili per assicurare la disponibilità dei mezzi necessari ai sistemi ospedalieri sotto pressione. La crisi del multilateralismo però precede l’attuale stato di emergenza pandemica e richiede degli sforzi di rinnovamento dell’architettura della governance globale e di sperimentazione di nuovi meccanismi di cooperazione internazionale. Se la pandemia dovesse raggiungere i Paesi più poveri con sistemi sanitari inadeguati alla cura ed al contenimento del virus, inedite forme di solidarietà internazionale dovranno prendere forma, oltre alle tradizionali modalità di aiuto allo sviluppo guidate dall’influenza geopolitica.
“Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema“(Anonimo street artist cileno, 2019).