Il petrolio al tempo del coronavirus
La settimana è iniziata con l’annuncio di un taglio alla produzione petrolifera di 9,7 milioni di barili al giorno (mbg), equivalente al 10% della produzione mondiale. Ciononostante il prezzo è tornato sotto i 30 dollari al barile.
Ciò non è sorprendente. Innanzitutto perché i tagli annunciati diventeranno effettivi solo a maggio. In secondo luogo perché continua, seppur secondo modalità diverse, la “guerra dei prezzi” iniziata il 6 marzo 2020, con l’Arabia Saudita che ancora questa settimana ha offerto forniture scontate a India e Cina.
Inoltre i tagli, per quanto consistenti, non sono sufficienti a invertire la rotta sul fronte dei prezzi, dato che il crollo della domanda indotto dal Covid-19 è ancor più cospicuo. La domanda di petrolio infatti calerà di 29 mbg ad aprile e di 26 mbg a maggio secondo le stime dell’Agenzia internazionale per l’energia (Aie). Questo corrisponde a un crollo del 25%, che riporta i consumi ai livelli di un quarto di secolo fa.
Eccesso di offerta
Tuttavia, i tagli non sono inutili perché, come ha annunciato il direttore esecutivo dell’Aie Fatih Birol, edulcorano lo squilibrio di mercato e tentano di “smussare” la curva – per usare un’espressione solitamente applicata ai contagi.
Ridurre la produzione è particolarmente importante per ridurre lo stress sugli stoccaggi. Siamo infatti vicini a un punto in cui gli stoccaggi di greggio saranno pieni per eccesso di offerta. L’Aie sostiene che con la traiettoria attuale gli stoccaggi saranno già pieni a fine maggio, mentre altri analisti indicano luglio come orizzonte temporale più plausibile. A quel punto i prezzi rischiano di entrare in un’ulteriore spirale negativa. Anche lo stoccaggio dei prodotti è al limite della saturazione, minacciando la continuazione delle attività di raffineria.
Nonostante possa sembrare poco intuitivo, i Paesi consumatori hanno supportato l’idea di un taglio alla produzione, seppur da una posizione defilata. Un crollo così consistente dei prezzi rischia di danneggiare permanentemente alcune realtà estrattive, che andrebbero offline. Nel momento in cui l’economia tornasse a crescere, si rischierebbero scarsità di offerta, prezzi alti e problemi di approvvigionamento.
Inoltre, se il crollo dei prezzi comportasse la bancarotta di aziende petrolifere più o meno grandi, e potenzialmente degli istituti di credito che le hanno supportate, si innescherebbe un’ulteriore spinta recessiva che colpirebbe tutti. Non deve dunque stupire che gli importatori netti siano a favore di meccanismi di stabilizzazione.
Geopolitica del petrolio
Dal punto di vista geopolitico, l’accordo raggiunto domenica dal blocco Opec Plus è ragguardevole perché è il suggello di negoziati gestiti da tre Paesi recentemente poco inclini al compromesso quali Stati Uniti, Arabia Saudita e Russia. È difficile individuare altri dossier che sarebbero riusciti nell’impresa di mettere d’accordo Trump, Putin e Mohammed Bin Salman in così poco tempo.
Inusuale è anche il supporto di Trump all’idea di tagli della produzione petrolifera da parte dell’Opec, viste le sue reiterate richieste di aumentarla in passato e la sua avversione per i cartelli. L’interesse statunitense è chiaro: salvare l’industria shale minacciata da prezzi troppo bassi in tempi di campagna elettorale. I primi effetti del crollo del prezzo del petrolio si sono già fatti sentire in Texas e altri Stati produttori, con licenziamenti e chiusure di pozzi.
Alcuni produttori “zombie” continuano a estrarre, nonostante i prezzi siano più bassi del breakeven. Questo può accadere quando i produttori hanno implementato efficaci strategie di hedging, quando hanno bisogno di flussi di cassa in quanto previsto dagli accordi che hanno con i propri finanziatori e quando tecnicamente non possono arrestare l’estrazione senza provocare danni permanenti ai giacimenti. Queste dinamiche aggravano l’eccesso di offerta.
L’interesse comune di Russia e Arabia Saudita è il desiderio di veder ridotte le quote di mercato dei produttori shale. Questo spiega la riluttanza ad agire finora. L’Arabia Saudita inoltre gode di prezzi breakeven bassi, sicuramente al di sotto dei 20 dollari al barile – il che mette al riparo le sue attività estrattive dal crollo dei prezzi.
Allo stesso tempo, tuttavia, sia Mosca sia Riad soffrono a livello finanziario e porre un limite al crollo dei prezzi rientra nei loro interessi. Per l’Arabia Saudita si aggiunge l’imperativo di non compromettere le relazioni politiche con gli Stati Uniti, che hanno esercitato forti pressioni per siglare l’accordo di domenica.
Ripresa, monitoraggio e altri settori
Un elemento chiave sarà il tipo di ripresa economica a cui assisteremo (se a “L”, a “U” a “V” o a “W”). Con una curva a “U” e tendente verso la “L”, che sembra configurarsi come plausibile, si avrà una ripresa lenta e incompleta. Questo porterebbe a una situazione di prezzi bassi e necessità di coordinare i tagli per un anno o due, eventualità peraltro prevista dall’accordo di domenica.
Inoltre, occorrerà vedere se tutti i Paesi produttori rispetteranno le proprie promesse di tagli. Il monitoraggio potrebbe risultare difficile a causa del Covid-19.
Nel lungo termine, sarà interessante vedere se questa crisi avrà segnato un “picco” nel consumo di petrolio, e se – una volta giunta la ripresa – i nuovi investimenti torneranno a confluire verso il petrolio o se si dirigeranno altrove, alla ricerca di una diversificazione del rischio e di settori che offrono garanzie di stabilità ed espansione nel lungo termine.