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Si insedia Elyes Fakhfakh

Tunisia: il nuovo governo tra speranze e incertezze

3 Mar 2020 - Giulia Cimini - Giulia Cimini

Dopo un lungo braccio di ferro durato quasi cinque mesi, la Tunisia ha finalmente un nuovo governo. La squadra proposta da Elyes Fakhfakh ha prestato giuramento lo scorso venerdì dopo aver incassato la fiducia del Parlamento con 129 voti a favore, 77 contrari e un solo astenuto in una plenaria fiume tra il 26 e 27 febbraio.

Incaricato dal neoeletto presidente della Repubblica Kais Saied dopo la bocciatura di Habib Jemli, candidato primo ministro proposto da Ennahda, Fakhfakh, 48 anni, è il sesto premier in carica dalle prime elezioni democratiche nel 2011 ad oggi. Ingegnere di formazione, ex ministro del Turismo e delle finanze con il partito social-democratico Ettakatol durante la coalizione della Troika (2011-2014), Fakhfakh ha anche corso alle presidenziali del 2019 ottenendo poco più dello 0,3% di preferenze.

In un Parlamento frammentato come mai prima d’ora si era temuto che anche questo governo avrebbe conosciuto la stessa sorte di quello di Jemli, soprattutto dopo l’annuncio, a metà febbraio, del ritiro dalle consultazioni di Ennahda, il partito musulmano-democratico di maggioranza relativa, seppur con meno di un quarto dei seggi totali (54 nel suo blocco su 217).

Il braccio di ferro tra Saied e Ghannouchi
Di fronte alla scelta di Fakhfakh di escludere dalla formazione del governo il secondo partito in Parlamento Qalb Tounes (Cuore della Tunisia, 38 seggi, la forza del discusso magnate televisivo Nabil Karoui) ,ritenuto un esempio di forza politica contro-rivoluzionaria, Ennahda aveva messo il veto al nuovo possibile esecutivo, salvo poi cambiare idea davanti all’elenco rivisto di ministri e sottosegretari che, pur continuando a non prevedere la partecipazione di Qalb Tounes, consegnava al partito musulmano-democratico un maggior numero di portafogli.

Nonostante una ripartizione più vantaggiosa per Ennahda, sembra difficile che nella scelta di fare marcia indietro su quanto deciso appena una settimana prima non abbia influito soprattutto il richiamo del presidente Saied, in un discorso che è stato subito additato da molti come una lezione nonché uno “smacco morale” al leader di Ennahda Rachid Ghannouchi per il paventato putsch costituzionale. In risposta alla possibilità evocata da alcuni dirigenti islamisti di avanzare una mozione di sfiducia nei confronti del governo uscente ed in carica per il disbrigo degli affari correnti in modo da evitare nuove elezioni secondo un’“interpretazione estesa” della Costituzione, Saied, giurista di formazione, aveva prontamente fatto muro. Fermo sulla necessità di sciogliere il Parlamento e convocare nuove elezioni in caso di bocciatura di Fakhfakh, il presidente aveva invece ribadito le sue prerogative costituzionali e sottolineato la scorrettezza di alcuni – un riferimento non troppo velato ad Ennahda – nel  ritirare all’ultimo il supporto al lavoro di Fakhfakh.

Paese ostaggio di una maldestra strategia della tensione
Senza contare che la scelta della leadership di Ennahda di avvicinarsi a Qalb Tounes, seppur giustificata come volontà di dar vita ad un esecutivo quanto più inclusivo possibile, stava incrementando i malumori all’interno del blocco islamista, sempre meno “granitico” negli ultimi anni. Difatti, e in contraddizione con una campagna elettorale che li aveva visti proporsi come poli opposti – così come accaduto nel 2014 con il partito Nidaa Tounes – , un primo accordo era stato già “siglato” in occasione della nomina a speaker del parlamento di Ghannouchi.

Con il voto di Qalb Tounes che in cambio ha ricevuto la vice-presidenza, Ennahda si è assicurata la seconda più alta carica dello stato. Al contrario, invece, Qalb Tounes aveva votato la sfiducia al governo di Jemli, proposto da Ennahda. E proprio questo continuo susseguirsi di cambi di direzione, così come gli annunci e le smentite sulle alleanze di governo, ha tenuto il Paese in ostaggio di una maldestra strategia della tensione.

In un clima di forte disillusione popolare verso la classe dirigente della Tunisia così come indicato anche dall’astensionismo in crescita al 59% in occasione delle ultime legislative di ottobre 2019, nuove elezioni avrebbero, con molta probabilità, depresso ulteriormente la fiducia generale e l’affluenza alle urne, senza cambiare il panorama politico. Tanto più in presenza di un’offerta politica sostanzialmente immutata e con le stesse regole elettorali.

Le sfide del nuovo esecutivo
Di fronte alle numerose sfide socio-economiche, Tunisi non avrebbe potuto permettersi il lusso di rimandare ulteriormente l’insediamento di un governo, con il maxi prestito da quasi 3 miliardi di dollari concordato nel 2016 col Fondo monetario internazionale in scadenza ad aprile 2020 (e non ancora completato), la necessità di negoziare nuove condizioni e varare un pacchetto di riforme atte a far fronte alla crescita economica stagnante (all’1% nel 2019), all’inflazione (calcolata tra il 5-6 % entro la fine del primo trimestre 2020) e un tasso di disoccupazione che da quasi un decennio oscilla intorno al 15% raggiungendo ben più alti livelli (oltre il 34% con picchi fino al 40% nelle regioni più marginalizzate dell’interno e del sud del Paese) tra i giovani, che rappresentano gran parte della popolazione totale.

Scongiurate nuove elezioni e sormontato (ancora una volta) lo stallo politico, insieme ai rischi e all’incertezza che da esso sarebbero derivati, la tenuta del governo si scontrerà da subito con le misure economiche legate anche ai prestiti del Fmi, in un esecutivo i cui membri partono da posizioni diametralmente opposte quanto a politica economica (si pensi ad Ennahda e al Movimento popolare), su questioni come la privatizzazione di imprese statali o l’implementazione di ulteriori misure di austerity. Condizione dei prestiti del Fmi, il programma di riforme nazionali in un’economia che gode per larga parte di incentivi pubblici, sembra, ad oggi, aver comportato soprattutto un forte aumento del prezzo dei beni di prima necessità e la riduzione del potere d’acquisto dei tunisini.

Non sorprende quindi che tra le priorità annunciate del nuovo governo vi sia sempre la crescita economica (nodo dolente del Paese come mancata promessa del post-rivoluzione), la lotta alla corruzione (in continuità col precedente governo guidato da Youssef Chahed), la “moralizzazione” della vita politica e la finalizzazione di istituzioni chiave nella transizione tunisina e a lungo rimandate come la Corte costituzionale. Con la fiducia accordata da più parti ma “con riserva” e le voci che si rincorrono già nei corridoi del Bardo (sede del Parlamento) su un probabile rimpasto di governo dei prossimi mesi, non si escludono colpi di scena e nuove battute d’arresto.