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I SACRI PALAZZI

Sette anni di Francesco, il papa delle periferie

15 Mar 2020 - Pietro Mattonai - Pietro Mattonai

Nella settimana in cui il suo pontificato compie sette anni, papa Francesco si è recato oggi prima nella Basilica di santa Maria Maggiore, per un momento di raccoglimento davanti all’icona bizantina della Vergine salus populi romani (dalla quale si recò anche la mattina dopo la sua elezione) e poi a piedi verso la chiesa di san Marcello al Corso, in un centro storico insolitamente deserto, per pregare, mentre l’Europa e il mondo lottano contro il coronavirus, di fronte al crocefisso che nel 1552 fu portato in processione per i quartieri della Città Eterna perché finisse la Grande Peste.

Era il 2013 quando, a seguito delle dimissioni – lette in latino – di Benedetto XVI, venne convocato il conclave ed eletto l’argentino Jorge Mario Bergoglio come nuova guida spirituale della Chiesa cattolica. Un settennato, nella storia millenaria del Soglio petrino, non è certo un’unità di misura rilevante, ma è almeno sufficiente a tracciare una parabola del pontificato di quel cardinale venuto “dalla fine del mondo”.

Una parabola, quella di papa Francesco, che disegna il suo andamento tenendo sempre ben congiunti tanto l’asse delle ascisse, lungo il quale si muove per quel che riguarda le questioni interne, in modo orizzontale, quanto l’asse delle ordinate che, sviluppandosi in verticale, rappresenta l’esposizione internazionale della Santa Sede. Se è pur vero che l’impresa di re Salomone, che ultimò la costruzione del Tempio proprio in sette anni, rimane inimitabile, lo sforzo del pontefice durante il suo settennato per un rinnovamento della Chiesa – tanto internamente, quanto all’esterno – è stato, sino ad oggi, instancabile. E la parola d’ordine, ormai nota, è una sola: decentramento.

La prospettiva periferica
Nella geopolitica dello spirito di papa Francesco le periferie assumono importanza strategica. Sarebbe errato affermare – come qualcuno ha fatto – che le periferie sono il nuovo centro. Bergoglio non mira a compiere una sorta di translatio imperii, dall’Europa e dal più ampio emisfero occidentale a quello orientale o del cosiddetto sud globale. Al contrario, il pontefice ambisce a creare una Chiesa policentrica, dove non vi sia un unico centro – sia esso a Roma o nelle periferie in senso lato – bensì una comunione di chiese diverse e locali, che concorrano insieme alla missione della Chiesa cattolica.

Non deve dunque stupire che Bergoglio, nella sua politica internazionale, abbia spesso e volentieri accolto le istanze e dimostrato vicinanza alle chiese che padre Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”, ha efficacemente definito come comunità “dello zero virgola“. Si pensi all’impegno costante e duraturo di papa Franceso per la penisola coreana e per l’instaurazione di un dialogo strutturato con la Cina di Xi Jinping, con la quale è stato concluso l’accordo provvisorio per la nomina dei vescovi. E in quest’ottica, per rimanere nel quadrante dell’Estremo Oriente, si colloca anche il recente viaggio in Thailandia e Giappone. Paesi dove il cattolicesimo è ancora un fragile virgulto.

Nella stessa direzione va l’azione petrina in Africa. Qui, però, la crescita dei cattolici tra il 2010 e il 2016 è stata di oltre il 20%, portando il continente ad essere il terzo per numero di fedeli e, in prospettiva, il secondo, al posto dell’Europa. L’apertura del Giubileo della Misericordia a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana sconvolta dalla guerra civile, è l’ennesimo prodotto del nuovo paradigma che sposta la Chiesa dal centro alle periferie che, presto, non saranno più tali.

La reazione del (fu) centro
Naturalmente, come in ogni allargamento, le risorse pro capite – in questo caso, immateriali – diminuiscono. Fino a pochi anni fa la Santa Sede ha ribadito, direttamente o indirettamente, la propria appartenenza al campo occidentale con Giovanni Paolo II prima e con Benedetto XVI poi. Il cambio di paradigma con papa Francesco, che ha portato alla riscoperta dell’universalismo e della naturale propensione verso l’umanità intera della Chiesa, priva – o quantomeno, riduce l’appeal – di una certa narrativa romanocentrica, dove l’Occidente fungeva da traduzione geografica unica ed insostituibile del messaggio e della tradizione culturale del cristianesimo.

La riduzione di risorse, va da sé, comporta reazioni anche plateali. Il clero nordamericano, tra i principali esempi del conservatorismo cattolico, ha rinfocolato un conflitto sotterraneo con la Chiesa cattolica che, nella storia degli Stati Uniti, ha sempre covato sotto la cenere. Durante i pontificati di Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger, questa contrapposizione si era allentata notevolmente, ma il progressismo e l’opzione preferenziale per le periferie di Bergoglio hanno contribuito all’ennesimo allontanamento tra Washington e Santa Sede. Del resto, la congiuntura storica – non frutto del caso – che vede alla testa dei due imperi Donald Trump e Francesco non facilita una ricucitura.

I temi su cui infuria la polemica oltreoceano sono molti. Dalle nomine vescovili – ultima quella dell’ispano-americano di origini cubane Nelson Perez a Philadelphia al posto del conservatore Charles Chaput – alla questione dell’aborto, tornata in voga anche grazie alla partecipazione di Donald Trump – primo presidente statunitense a farlo – alla March for Life, la manifestazione antiabortista più famosa al mondo. Ma c’è di più: con la componente conservatrice non solo a stelle e strisce tiene banco anche il tema del celibato ecclesiastico, che il pontefice – nonostante quanto spesso detto – però non ha menzionato in alcun modo nell’esortazione Querida Amazonia. Un tema che, come detto, non ha contrapposto Francesco esclusivamente al clero statunitense, ma anche a quello africano, iceberg alla cui sommità si è posto l’affaire del libro scritto dal cardinale Robert Sarah e – così sostiene il porporato della Curia – dal papa emerito Benedetto XVI.

Un conclave più democratico
Sul piano cartesiano che descrive il pontificato di Bergoglio, la parabola papale non può sussistere senza la dimensione domestica, che è intrinsecamente legata a quella internazionale. Il decentramento voluto da Francesco non è (solo) retorica, ma politica nel suo senso più primigenio: governo della città. Chi è avvezzo alle questioni elettorali sa che il decentramento è accompagnato, solitamente, da una legge di tipo proporzionale. Che è esattamente ciò che persegue Bergoglio attraverso la nomina cardinalizia di quei vescovi che presiedono le conferenze episcopali, dando così al futuro conclave una sorta di legittimazione dal basso.

Proprio questo ruolo riconosciuto alla base dei fedeli è risultato determinante nella nomina di alcuni cardinali nei concistori tenuti da Francesco in questi sette anni. Basti pensare ad Alberto Suárez Inda, arcivescovo di Morelia in Messico, a Patrick D’Rozario, arcivescovo di Dacca in Bangladesh, oppure all’eparca di Addis Abeba, Berhaneyesus Demerew Souraphiel. Come ha detto lo stesso Bergoglio, l’obiettivo è quello di riequilibrare anche l’organo elettivo nel senso di una Chiesa universale, non eurocentrica: il conclave, per Francesco, dovrà essere diventare una Camera dei rappresentanti del cattolicesimo globale.