Papa Francesco: quella foto è già un simbolo
Le immagini che segnano la storia dell’umanità hanno il potere di farsi immediatamente simboli. La foto del Tank Man, che ritrae quello sconosciuto cittadino cinese in piedi di fronte a quattro carri armati della Repubblica popolare cinese, esprime istantaneamente la protesta di un popolo contro un regime. Una qualsiasi immagine dell’abbattimento del Muro di Berlino, allo stesso modo, è una rappresentazione di libertà, di cambiamento, di passaggio da un’epoca all’altra.
Le foto di papa Francesco, da solo con alle spalle l’icona della Salus Populi Romani e il Crocifisso di san Marcello – oggetto della venerazione dei romani che la tradizione vuole come salvezza della città durante la peste – e di fronte piazza San Pietro completamente deserta, sono, come quelle già citate, simboli. Segni che, nel presente e nel futuro, descriveranno in una sola immagine la quotidianità globale durante l’emergenza sanitaria del coronavirus, in grado di spezzare – o, quantomeno, sospendere – i rapporti umani.
La benedizione del pontefice e le sue parole durante l’omelia racchiudono i propositi e la speranza di Bergoglio e della Chiesa cattolica per l’umanità e il mondo, la “casa comune” che, oggi, affronta una crisi in grado di ridisegnare abitudini e dinamiche mondiali non solo nel breve, ma anche nel lungo periodo. Propositi di una presa di coscienza universale, che spinga i popoli a non dimenticare quella “benedetta appartenenza comune“, ovvero “l’appartenenza come fratelli“. Un’epifania necessaria alla ricucitura di quelle ferite sociali ed economiche che indeboliscono alle fondamenta le comunità politiche. Per avverare, finalmente, una speranza profondamente cristiana degli eventi internazionali.
La casa comune dell’umanità
“Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca”. Papa Francesco, durante la meditazione, ha riportato l’episodio della tempesta, citato nel vangelo di Marco. Quella barca, sulla quale l’umanità intera si è ritrovata, è metafora della “casa comune”. Un tema che Bergoglio ha originariamente individuato nella Lettera enciclica Laudato si’, dove il mondo viene presentato, appunto, come “casa comune”, un ambiente di vita dove esseri umani e contesto circostante interagiscono costantemente. La visione del pontefice, che si incentra sull’ecologia integrale, racchiude in un’unica dimensione la variabile umana e sociale e quella naturale ed economica.
Per questo, come ha detto Francesco, non è più possibile rinnegare l’appartenenza comune come fratelli che, all’interno della stessa casa e nello stesso periodo, vivono la stessa difficoltà. “Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo”: un monito che ricorda il passo “No Man is an Island” del poeta britannico John Donne e che esorta l’umanità a prendere coscienza della propria condizione e dell’assetto internazionale che, oggi, esclude ed emargina fasce sempre più ampie di se stessa.
“Non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato”. L’equazione bergogliana, in quest’ottica, è semplice: finché la società, sia essa locale o mondiale, continua ad “abbandonare nella periferia una parte di sé” (Evangelii Gaudium, 59), non vi potrà essere giustizia, ma solo violenza. “Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”. La costruzione di un paradigma alternativo e inclusivo, che azzeri la distanza tra le periferie – geografiche ed esistenziali – e il centro, dunque, è oggi ancor più necessaria per riportare la nostra barca in acque tranquille.
Una speranza cristiana
Questa presa di coscienza è condizione necessaria per l’avveramento della speranza che muove (anche) la politica internazionale di papa Francesco. Che, lo stesso pontefice, ha espresso nell’omelia di piazza San Pietro. “[…] Questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte”. Non vi è una politica estera della Santa Sede in senso stretto. Ovvero: non vi è un calcolo di costi e benefici nell’articolazione di una determinata strategia. Quest’ultima, per definizione primitiva, mira alla valutazione delle operazioni belliche più opportune per il raggiungimento dell’obiettivo finale. Un obiettivo che, va da sé, è intimamente terreno.
La speranza che muove Francesco è escatologica. Solo Dio, alla fine dei tempi, avrà la parola definitiva. Oggi, proprio per questo, l’unico sforzo che la Chiesa può e deve fare è quello di “reimpostare la rotta di vita” verso Dio stesso e verso il bene. Una speranza escatologica, quindi, ma non deterministica: “Non è tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio”. L’umanità ha ancora la possibilità di scegliere. Il papa, nella sua opera diplomatica, sceglie di non scindere tra bene e male, come solo una geopolitica dell’apocalisse è in grado di fare, bensì si adopera per instradare Stati e leader di tutto il mondo, anche al di fuori della comfort zone euro-atlantica, verso un modello di società diverso.
Il ruolo del cattolicesimo globale, dunque, è quello di fornire una narrazione critica, che superi i confini statuali e che si ponga come alternativa agli attuali modelli di sviluppo che generano, appunto, periferie sociali. Un progetto che, nell’epoca del coronavirus, sembra essere entrato finalmente nelle agende delle principali istituzioni internazionali.