Dal coronavirus nuova linfa per la sanità militare?
Certe spese, che non hanno un ritorno immediato, o lo hanno solo per qualcuno, non sono popolari, proprio come quelle assicurative: se si può si evitano e se proprio e se proprio ci si è costretti si sceglie la soluzione meno costosa, anche se la copertura non è ottimale. Così è accaduto nel recente passato anche per la sanità militare, al punto che a suo tempo qualcuno obiettò addirittura circa la sua necessità, dal momento che la popolazione militare è generalmente in buona salute e che in ogni caso si sarebbe potuti ricorrere al servizio sanitario nazionale.
Con la fine della guerra fredda e poi con la sospensione della leva si avviò un faticoso processo di riforma, che si sarebbe dovuto ispirare a criteri integrazione tra i servizi delle singole forze armate e a una sostanziale riduzione delle strutture, tanto che dei 9 ospedali militari distribuiti sul territorio nazionale nel 2010 è sopravvissuto un solo vero policlinico, quello del Celio a Roma, e gli organici, medici e paramedici, hanno subito pesanti decurtazioni. In buona sostanza le attività venivano limitate a quelle relative al sostegno dei reparti impiegati nelle missioni militari all’estero e quelle domestiche relative ad aspetti burocratici e di medicina legale. C’è stato, è vero, qualche tentativo di avviare una collaborazione strutturale con il servizio sanitario nazionale, per mettere a disposizione del pubblico capacità e strutture, ma la cosa è stata gestita con grande timidezza.
Su tutto però, l’aspetto più preoccupante è stato il depauperamento delle risorse umane, venuto drammaticamente alla luce con l’insorgere della pandemia di Covid19. Questa crisi ha indotto ad assumere, nel quadro delle misure prese dal Governo, un’inusitata iniziativa: il bando di un concorso per il reclutamento in ferma breve di un anno di 120 Ufficiali medici e 200 assistenti. Il bando sta avendo un’accoglienza francamente inattesa: le domande che stanno arrivando superano in modo significativo ogni attesa, il che ci dice che nel paese esiste un ampio serbatoio di risorse umane disponibili e ancora sottoutilizzate.
Da tutto ciò nascono una serie di considerazioni che vanno al di là dell’attuale situazione emergenziale e che dovrebbero informare le future decisioni e i futuri assetti riguardanti la sanità militare: ci si deve convincere che le strutture e le capacità potenzialmente esprimibili non devono essere gelosamente custodite all’interno del mondo della Difesa e che allo stesso tempo le peculiarità che caratterizzano il mondo militare sono un assetto prezioso, da preservare e alimentare con cura anche in tempi normali.
Peraltro, come in qualsiasi altra attività umana, anche per la sanità militare vale il concetto della massa critica, al di sotto della quale il rendimento del sistema scende a livelli inaccettabili e quindi in una realtà relativamente piccola come quella della Difesa non ha alcun senso conservare gli steccati ancora esistenti tra le singole Forze armate. Si rende pertanto necessario un rinnovato impulso per una più stretta integrazione in senso interforze delle risorse mediche esprimibili da Esercito, Marina e Aeronautica, certo salvaguardando le nicchie specifiche di chi opera in ambienti particolari come il mare e il cielo, ma con una gestione unitaria da perseguire senza le gelosie che finora non hanno consentito di fare i progressi potenzialmente possibili.
Tre principi, dunque, che devono ispirare il dopo emergenza: integrazione in senso interforze, potenziamento e salvaguardia delle peculiari funzioni e capacità della sanità militare, osmosi proattiva tra questa e il servizio sanitario nazionale. Da una vicenda drammatica come quella che stiamo vivendo dobbiamo trarre questi utili insegnamenti, in modo da essere più pronti e reattivi in futuro.