“Netanyahu vince anche grazie a Trump e al suo piano di pace”
Benjamin Netanyahu ha vinto le elezioni di lunedì in Israele e, secondo Lara Friedman, presidente della Fondazione per la Pace in Medio oriente (Fmep), parte della vittoria può essere anche attribuita a Donald Trump e al suo Deal of the Century, il piano di pace per Israele/Palestina svelato alla fine dello scorso gennaio. “Questo piano incarna uno spostamento storico senza precedenti della politica estera degli Stati Uniti per il quale Netanyahu può rivendicare e ha rivendicato i crediti durante tutta la sua campagna elettorale. Ciò detto, non si tratta né di un piano di pace né di un accordo, ma di un’iniziativa americana volta a consolidare una determinata visione del mondo”.
Lara Friedman, Netanyahu ha vinto le elezioni di lunedì in Israele. Quanto ha inciso il piano di Trump sui risultati elettorali?
L’annuncio del piano poco prima delle elezioni, in un evento in cui Netanyahu è stato elogiato da Trump, ne ha rafforzato l’immagine come un primo ministro accolto, rispettato e a cui, in effetti, è stato assegnato uno status speciale dal leader politico più potente del mondo. Il messaggio del presidente statunitense agli elettori israeliani era abbastanza chiaro: per quanto riguarda la Casa Bianca, le accuse contro Netanyahu non sono importanti. Nello stesso tempo, il piano di Trump incarna uno spostamento storico senza precedenti della politica estera degli Stati Uniti per il quale il primo ministro israeliano può rivendicare e ha rivendicato crediti durante la sua campagna elettorale. Il peace to prosperity ha ulteriormente indebolito l’alleanza politica Blu e Bianco guidata dall’ex capo di Stato maggiore Benny Gantz, evidenziando il fatto che la sua piattaforma si è ridotta ad un “votate per noi – saremo quasi esattamente come Likud ma senza Bibi”, come si è visto dalle dichiarazioni di Gantz che abbracciano e lodano il piano americano.
Inoltre, il piano di pace è stato probabilmente uno dei fattori (altri includevano il sempre crescente razzismo di destra di questa campagna) che spiega perché in quest’ultima tornata elettorale il tasso di partecipazione dei cittadini palestinesi è aumentato ancora di più, favorendo un risultato storico per la Joint List, l’alleanza politica dei partiti politici arabo-israeliani.
Infine, sebbene non vi siano ancora abbastanza dati per trarre conclusioni definitive, è probabile che la soluzione di Trump – che invia il chiaro messaggio che l’annessione è accettabile e inevitabile – abbia contribuito all’ulteriore riduzione dei voti per la sinistra (come per la lista Labor-Gesher-Meretz). Quest’ultima sembra aver perso elettori sia in favore della Joint List, che proponeva una visione più coerente e convincente per un futuro progressista, sia nei confronti di Blu e Bianco, che offriva un timbro kosher “moderato” all’agenda annessionista.
In che modo il piano di pace di Trump incarna uno spostamento storico senza precedenti della politica estera degli Stati Uniti?
Prima di tutto non si tratta di un piano di pace né di un accordo, ma di un’iniziativa americana volta a consolidare una visione del mondo, che è quella di Israele, secondo cui gli israeliani sono gli unici ad avere il diritto – legittimo – di controllare tutto il territorio tra il Giordano e il Mediterraneo.
Non è nient’altro che un’imposizione e una legittimazione di uno status quo. Infatti, si distingue da tutti gli accordi del passato, i quali invece erano iniziative di pace, il cui presupposto era mettere insieme Israele e i palestinesi per negoziare una serie di patti che potevano rispondere sufficientemente ai bisogni e alle aspirazioni genuine di entrambe le parti. Pensiamo per esempio all’accordo tra Israele e l’Egitto: si trattava di una proposta che era stato negoziata. Una parte aveva molto più potere, Israele, ma il trattato era stato fatto sulla base degli interessi delle due parti, in modo che tutte e due avessero l’interesse di rispettarne i termini nel lungo periodo. In questo modo, ognuna delle due parti pensava che, rispettando i patti, avrebbe ottenuto ciò di cui aveva veramente bisogno.
Si poteva convenire o meno con i contenuti – e molti errori sono stati fatti – ma gli accordi del passato erano il risultato di un progetto pragmatico e razionale che le persone avevano sviluppato confrontandosi con problemi concreti e pragmatici del territorio. Oggi invece quello che abbiamo è un progetto ideologico che è stato sviluppato dalle persone più ideologiche che gli Stati Uniti abbiano mai avuto e che hanno affrontato la questione solo da questo punto di vista.
L’intenzione del piano di Trump non è quella di includere i palestinesi nel negoziato, ma di imporgli una nuova realtà che dice “Israele è il vincitore, tu sei Palestinese e sei sconfitto. Potresti, se decidi di far parte di questo accordo, ottenere un ruolo marginale nel pianificare i termini secondo i quali vivrai come un popolo conquistato. Se però decidi di non seguire tutte le nostre condizioni e accettare questo ruolo che ti stiamo dando, pazienza, vivrai quasi esattamente sotto le stesse condizioni, perdendo qualsiasi possibilità di agire nel futuro o qualsiasi diritto all’autodeterminazione””.
In questi termini, rifiutando l’accordo quindi cosa hanno ottenuto i palestinesi?
Ripeto: i palestinesi non hanno avuto la possibilità di accettare o meno il piano, perché si trattava di imporre una nuova realtà. Ma la vera differenza è che se avessero accettato lo avrebbero legittimato. E l’unica possibilità che è rimasta ai palestinesi è di renderlo illegittimo da un punto di vista del diritto internazionale.
Rifacendosi al diritto internazionale, c’è infatti chi sostiene che in realtà il piano di Trump è un’arma a doppio taglio per Israele, dal momento che gli conferisce dei poteri che nel lungo periodo non possono essere legittimati, come per esempio l’annessione di un terzo della Cisgiordania…
Questa è sicuramente un’analisi interessante, anche se oggi siamo in un momento in cui alcuni Paesi europei – pur riconoscendo la Palestina – sostengono che la Corte penale internazionale non abbia giurisdizione. E sugli insediamenti, c’è una campagna internazionale che ha un’attrattiva enorme in Europa, secondo cui boicottare i prodotti che derivano dagli insediamenti è una forma di antisemitismo che non deve essere permessa.
Ma soprattutto, un israeliano potrebbe dire “non abbiamo bisogno né del permesso né del perdono del mondo. Continueremo a costruire e a un certo punto il mondo accoglierà ciò che stiamo facendo”. Se fossi di quello schieramento penserei che 50 anni di storia mi hanno dimostrato che possiamo farlo e che abbiamo ragione.
Come giudica la reazione del mondo arabo?
La reazione del mondo arabo è stata interessante, ma vanno fatte un paio di premesse. Innanzitutto, l’amministrazione americana crede chiaramente di poter convincere il mondo arabo offrendo loro una copertura politica. In secondo luogo, ciò in realtà non ha funzionato perché, da quando il piano è stato annunciato, abbiamo assistito ad una sorta di andirivieni della Lega araba e dell’Organizzazione della cooperazione islamica.
Già si vedono i limiti di quel che possono ottenere gli arabi accettando Trump e sostenendo qualcosa che toglie i diritti ai palestinesi, riconosce Gerusalemme come capitale di Israele, etc… Quelli che dicono che sanno perfettamente in che direzione va questa presa di posizione degli arabi verso Trump mentono: è vero che si può spiegare che molti governi arabi vogliono avere delle relazioni strette con gli americani per motivi di sicurezza, in merito all’Iran etc… Ma fino ad adesso non c’è nessuna prova che, sostenendo Trump, siano diventati talmente forti da appoggiare un piano che è semplicemente l’imposizione di uno status-quo e che spreme milioni di palestinesi”.
È da anni che si discute se sia vero o meno: ma oggi si può dire che la soluzione dei due Stati è definitivamente svanita?
Quando ancora oggi parlo di un’ipotetica soluzione dei due Stati, ciò presuppone che le cose cambino. Richiede la rimozione degli insediamenti e che cambi il modo in cui Israele controlla il territorio. Nel caso in cui le cose mutassero sul territorio, la possibilità dei due stati potrebbe riemergere. Oggi, anche prima di qualsiasi annessione informale, l’idea dei due Stati non è immaginabile. Se poi ci sarà un’annessione ufficiale, tale prospettiva sarà ancora più difficile, perché rimuove la possibilità stessa che una delle due parti sia interessata a questa soluzione.
La via dei due Stati per anni è stata portata avanti dal fatto che erano le due parti a volerla. Ma negli ultimi anni, le politiche israeliane sono andate chiaramente in un’altra direzione. E oggi abbiamo un governo che sostiene di voler conservare tutto ciò che vuole. E se i palestinesi, sotto il piano di Trump, accetteranno le migliaia di condizioni alle quali il piano li sottopone, forse, nel futuro l’arcipelago di isole in cui devono vivere potrebbe essere chiamato uno Stato.
Nel lungo periodo, che impatto avrà sulla sicurezza degli israeliani e dei palestinesi?
Il piano di Trump è l’emanazione di una certa scuola di pensiero di ultra destra americana e israeliana, che ha concepito “il progetto di vittoria israeliano”. Per loro, l’unico modo per ottenere la pace è sopraffacendo l’altro in modo tale che la sconfitta faccia perdere all’avversario qualsiasi speranza di ottenere quello che avrebbe voluto. Credono che questo sia il modo di vincere. Ma io ritengo che la storia abbia dimostrato che umiliando e sconfiggendo i popoli si seminano i presupposti per un altro conflitto.