Lo sfumato confine tra autorevolezza e autoritarismo
Una gestione decisa e autorevole delle emergenze da parte dei governi in tempi di crisi non rappresenta nulla di anormale. Quando vi è un pericolo imminente a minacciare un Paese, poco conta che si tratti di conflitti, terrorismo, disastri naturali o epidemie, l’esecutivo è autorizzato, spesso dalla stessa Costituzione, a prendere tutte le misure necessarie a scongiurare il peggio, anche scavalcando il vaglio delle assemblee rappresentative. Questo è quanto sta accadendo in tutti i Paesi del mondo che, messi davanti all’emergenza coronavirus, corrono ai ripari governando per decreto e disponendo forti limitazioni al godimento delle libertà fondamentali individuali e collettive al fine di limitare il contagio e ovviare al collasso dei sistemi sanitari nazionali.
Fin qui tutto regolare, ma quand’è che le restrizioni si spingono troppo oltre? Superato quale limite la gestione emergenziale della crisi rischia di diventare strumentalizzazione? E soprattutto, come individuare lo sfumato confine tra una decisione autorevole e un’imposizione autoritaria?
La situazione in Medio Oriente
In Medio Oriente sono 29.696 i casi di contagio da Covid-19, 1.925 i deceduti e 8.925 i guariti. A partire dal focolaio iraniano, il virus ha raggiunto velocemente tutti i Paesi della regione, con l’assurda eccezione di Siria, Libia e Yemen, e il sospetto è che, dietro i numeri ufficiali, vi sia una realtà ben più preoccupante. Al di là del fatto che probabilmente i regimi illiberali della regione vogliano lavare in casa i panni sporchi e quindi pecchino di poca trasparenza nel comunicare l’effettiva entità del contagio, a preoccupare è, nei Paesi in conflitto aperto, la totale assenza di un potere centrale che possa quantomeno prendere atto della diffusione del virus. Eppure, la mobilità umana in quelle zone resta estremamente elevata, tra milizie e soldati stranieri che entrano ed escono da confini diventati troppo porosi e civili che per sfuggire alla violenza approdano in campi profughi sovraffollati dove a mancare sono le più basilari condizioni igieniche e lavarsi le mani è un lusso agli occhi di chi spesso non ha accesso neppure all’acqua potabile.
A prescindere dal numero reale di contagi, tutti i governi della regione hanno adottato, in linea con le disposizioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, misure restrittive per limitare la diffusione del virus. Tante sono le analisi circolate in questi giorni sui devastanti effetti che le misure avranno sulle già fragili economie dei paesi mediorientali, ma quale sarà l’impatto delle restrizioni imposte alla cittadinanza a livello politico nel più lungo periodo?
Se il coronavirus è un pretesto
Dietro la militarizzazione delle strade, l’imposizione di stati d’emergenza e coprifuoco e l’attivazione di invadenti sistemi di sorveglianza sociale spesso non c’è solo la volontà di contrastare la pandemia. Eclatante è il caso di Israele dove il primo ministro ad interim, Benjamin Netanyahu, coglie il tempismo perfetto dell’emergenza per far saltare i lavori della formazione del nuovo governo che per la prima volta dopo 11 anni, con le scorse elezioni di marzo, sembrava avere i numeri per metterlo fuori gioco. Non solo. La stretta sulle attività dei tribunali, interpretata come essenziale per la lotta al virus, è arrivata proprio due giorni prima dell’avvio del processo a re Bibi per corruzione, frode e abuso di fiducia, rimandato già da mesi e che adesso slitterà al 24 maggio, salvo ulteriori, e non improbabili, colpi di scena.
Le misure adottate in Israele, tra le più tempestive della regione, non si sono limitate a restrizioni della libertà di movimento e quarantene forzate, ma si sono spinte fino alla sorveglianza digitale di massa. L’agenzia di intelligence interna israeliana, Shin Bet, è stata infatti incaricata da una controversa misura governativa, entrata in vigore senza l’approvazione della Knesset, di tracciare i movimenti dei cittadini positivi al virus e di chi vi entra in contatto, in modo da poter ricostruire con precisione il link epidemiologico. L’apparente determinazione di Netanyahu a limitare la diffusione dell’epidemia ad ogni costo stride però con le ultime notizie che arrivano dai quartieri sotto occupazione: mentre a Isawiyya, Gerusalemme est, le operazioni delle autorità israeliane contro gli abitanti continuano normalmente senza guanti né mascherine, a Gaza si registrano i primi due casi di coronavirus che, a fronte di un sistema sanitario locale inesistente e della completa chiusura delle frontiere, rappresentano una minaccia esistenziale per i 2 milioni di residenti imprigionati nella Striscia di Gaza.
Calmate le piazze
Anche in Libano, Iraq e Algeria, sia pure in maniera differente rispetto a Israele, il coronavirus è visto come opportunità, sapientemente sfruttata dai regimi al potere per tenere dentro casa le migliaia di cittadini che da mesi affollavano le piazze rivendicando un cambiamento politico radicale. Nuovi governi, riforme, promesse, nulla pareva riuscire a tenere libere le strade di Beirut, Baghdad e Algeri, le stesse strade che sono oggi silenziose, svuotate e militarizzate. Certo, sono misure necessarie per contenere l’epidemia oggi, ma il rischio è che tali provvedimenti uniti a una narrativa emergenziale simil-bellica, siano in realtà un’abile vecchia mossa per smontare una volta per tutte le proteste, tenendo separate le rivendicazioni dei cittadini dai presumibili devastanti effetti del virus.
Pure in Egitto, l’emergenza viene integrata senza troppe difficoltà in strategie collaudate, divenendo uno strumento ulteriore del regime repressivo di al-Sisi che se per giornalisti stranieri che provano a raccontare una realtà diversa dalla narrativa ufficiale, si limita a revoche delle credenziali, censura o richieste di apologia, per attivisti egiziani può assumere anche la forma di detenzioni arbitrarie.
Volendo mettere da parte il tragico capitolo economico che si aprirà una volta debellata la pandemia in Medio Oriente, il rischio da una prospettiva prettamente politica è che le misure straordinarie non verranno ritirate del tutto. Quello che si teme è che le restrizioni delle libertà individuali e collettive resistano più a lungo del coronavirus e vengano piuttosto normalizzate nelle strategie di regime survival delle classi al potere, rendendo chiara la loro natura autoritaria più che autorevole, ove la differenza tra le due sta nella legittimazione politica che continua a mancare in molti, troppi, contesti mediorientali.