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I DIRITTI AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

Le patologie epidemiche della democrazia

10 Mar 2020 - Cesare Merlini - Cesare Merlini

E se il Covid-19 non fosse la sola pandemia che affligge l’umanità? Il quesito sorge alla lettura di due rapporti appena pubblicati, quello di Freedom House sullo stato della democrazia nel mondo nel 2020 e quello del Pew Research Center sul sostegno ai diritti civili in 34 Paesi.

Entrambi ci dicono che le istituzioni di molti Stati, spesso fra i più importanti nella geopolitica globale, soffrono di patologie, certo non tanto drammatiche quanto il coronavirus oggi, ma forse più sistemiche e durature di esso. E gli accadimenti occorsi di recente, quindi dopo la stesura delle due rassegne, lo confermano.

I regimi autoritari
Cominciamo dai regimi autoritari più rilevanti. L’ottusità del pugno di ferro del Partito comunista cinese era già emersa nel tentativo di imporre la giustizia di Pechino a Hong Kong, in barba al principio detto dei “due sistemi”. Ora è stata ribadita dalla gestione iniziale del virus, da alcuni paragonata a quella sovietica del disastro nucleare di Chernobyl. Ma questo non ci deve far perdere di vista il vero scandalo del regime di Xi Jinping: l’azzeramento culturale dello Xinjiang e il confinamento degli uiguri musulmani, in corso da diversi anni nei campi detti di “rieducazione e lavoro”, in realtà forme aggiornate di lager o di gulag.

La Russia pratica sistematicamente la tecnica del consolidamento del potere centrale, cioè quello personale di Vladimir Putin, mediante elezioni rese plebiscitarie dalla previa costrizione delle opposizioni, inclusa l’incarcerazione dei loro leader, e tramite la sottomissione di tutti i poteri altri da quello del presidente. Questo approccio ha fatto anche scuola, e non solo con l’amico-nemico Recep Tayyip Erdogan. Le elezioni da poco tenutesi in Iran hanno visto il Consiglio dei Guardiani, controllato dalla Guida Suprema, escludere dalle liste gran parte dei candidati riformisti così da ridurre la competizione alle diverse anime del regime teocratico e autoritario. Qualche piccola consolazione nei tre casi: i segnali di autonomia mandati da elezioni locali nelle repubbliche russe e in Turchia, nonché l’astensionismo della maggioranza degli iraniani.

Le democrazie “mature”
Forse sono ancora più allarmanti le fenditure apertesi negli edifici delle democrazie considerate mature. I sanguinosi incidenti che in India hanno accompagnato la recente visita del presidente degli Stati Uniti Donald Trump a New Delhi sono la spia dell’odio generato dalla politica di Nerendra Modi: prima ha eliminato le libertà di espressione e di comunicazione nel Kashmir, poi ha promosso la legislazione sulla cittadinanza, gravemente discriminatoria contro la cospicua minoranza musulmana. Altro caso è quello di Israele, dove, come nota Freedom House, il premier Benjamin Netanyahu ha cercato il sostegno dell’estrema destra con leggi sulla cittadinanza avverse ai non ebrei e con la limitazione delle libertà dei locali e degli stranieri critici della sua politica sugli insediamenti in territorio palestinese. L’arretramento rischia di scendere nel sentire della gente. Significativo in proposito quanto ci dice il Pew Research Center sul calo dell’attaccamento dei cittadini alla libertà di parola: dal 44% nel 2015 al 32% nel 2019 in India e nello stesso intervallo, di soli tre anni, dal 58% al 51% in Israele.

Cruciale, secondo il primo dei due rapporti, è stato il venir meno di quella che viene definita “leadership democratica” degli Stati Uniti. E ciò è avvenuto sia in conseguenza della pressione esercitata all’interno del Paese nei confronti dei media non allineati, dell’indipendenza giudiziaria e dei whistle-blower sulle interferenze estere nel sistema politico americano, sia, in politica estera, per effetto dell’abbandono dei valori della libertà, dei diritti umani e del multilateralismo cooperativo. Il tutto condito con le simpatie personali di Donald Trump per i vari Putin, Modi e Netanyahu. Non sorprende quindi che l’indice di democrazia, periodicamente elaborato da Freedom House su oltre duecento paesi, veda quello relativo agli Usa scendere di otto posizioni dal 2009 al 2019, scavalcando verso il basso vari partner, fra cui, si noti, l’Italia.

Capitolo Europa
Non che l’Europa stia bene
. Le recentissime elezioni legislative in Slovacchia – contraddittorie rispetto a quelle presidenziali dello scorso anno che avevano visto sorprendentemente eletta Zuzana Čaputová, progressista ed europeista – segnano una svolta a destra che ricolloca politicamente il paese nel gruppo Visegrád (con Repubblica ceca, Polonia e Ungheria), avente in comune il noto processo di deterioramento delle credenziali democratiche: equilibrio dei poteri, rispetto delle opposizioni e delle minoranze e tutela dei diritti civili.

Ma anche qui forse il problema più serio sembra manifestarsi nella grande Germania, che non è più quella che si inginocchiava con Willy Brandt a Varsavia, né quella di Helmut Kohl che si univa con la metà Est sulla base della parità del marco, e neppure quella di Angela Merkel che apriva le porte ai profughi siriani. Il problema sta nell’assurgere di AfD (Alternative für Deutschland, partito di estrema destra nazionalista, xenofobo e con venature neonaziste) a protagonista politico nei Laender orientali, come si è visto in Turingia, e attore non trascurabile in quelli occidentali. E anche qui è bene spiare nell’animo degli elettori, come ci aiuta a fare il Pew Center: il sostegno dei tedeschi alla libertà di stampa è sceso dal 73% nel 2015 al 67% nel 2019. Dato da leggersi con umiltà in Italia, dove altrettanto è successo negli stessi anni, ma dal 64% a un vergognoso 56%.

Eppure, l’Unione duropea sembra conservare un qualche ruolo di riferimento valoriale, proprio delle sue scelte civili e ambientali, e multilateralista, insito nella sua natura di istituzione parzialmente integrata. E ciò sia all’interno sia all’esterno della sua compagine. Questa seconda dimensione avrebbe le possibilità di crescere proprio a seguito del suddetto venir meno della leadership esercitata in passato dagli Stati Uniti, pur con le note ambiguità e ambivalenze. Ma i ruoli degli attori internazionali dipendono inesorabilmente dalle capacità geopolitiche e strategiche che essi sanno darsi. Ora queste sono a loro volta condizionate proprio dalla parzialità dell’integrazione intergovernativa, quindi subordinata all’intesa fra Stati membri, che abbiamo visto essere anch’essi variamente soggetti alle patologie di ritorni reazionari, autoritari, anti-immigratori. E, in più, sovranisti.

Il che ci riporta al punto di partenza, ossia alla simultaneità con il coronavirus, per un’ultima considerazione. In realtà un quesito: esiste un effetto reciproco fra la contingente pandemia sanitaria e le patologie della democrazia, che abbiamo definito sistemiche? Al momento la risposta sembra essere positiva e, purtroppo, pessimista. I meccanismi della propagazione virale parlano contro l’interdipendenza e la catena globale di valore che si erano instaurati nell’economia internazionale. E gli interventi politici prevalenti parlano contro la solidarietà e l’efficacia delle istituzioni multilaterali. Ma, come dicono gli esperti di mercati finanziari, l’unica certezza oggi è l’incertezza. Speriamo che il futuro porti a smentire il pessimismo.