Le misure in Italia e nel resto d’Europa
La settimana iniziata con il pacchetto di drastiche misure anti-contagio adottate dal governo Conte l’8 marzo, rafforzato nei giorni successivi, ha visto nel resto dell’Europa una improvvisa realizzazione della gravità della minaccia e della necessità di misure eccezionali. Ci si è resi conto che la velocità di diffusione del virus, con un raddoppio dei casi ogni 2-3 giorni, non è una particolarità italiana. Semplicemente, il nostro paese è avanti di 8-10 giorni: Spagna, Francia e Germania hanno superato o stavano per raggiungere il 12 marzo quota 3000, come l’Italia il 4 marzo.
I discorsi dei leader europei
Emmanuel Macron ha constatato che siamo di fronte alla peggiore crisi sanitaria dopo la “spagnola” di un secolo fa, più grave cioè che l'”asiatica” del 1957 e la Sars del 2003. Angela Merkel ha detto quello che nessuno osava dire: due terzi della popolazione, presto o tardi, saranno raggiunti dal contagio.
In altre parole, si è capito che l’obbiettivo deve essere quello non tanto di contenere il numero complessivo delle persone infettate, quanto di rallentare la diffusione al fine di spalmarla su parecchi mesi. Guadagnare tempo per liberare o creare nuovi posti negli ospedali, reclutare medici e infermieri, e soprattutto ampliare la disponibilità di letti in terapia intensiva, in modo, come ha detto il Cancelliere austriaco Kurz, da non trovarsi, quando arriverà l’inevitabile tsunami, nella angosciante situazione degli ospedali lombardi.
Sino a pochi giorni fa i nostri vicini hanno creduto di poter basare questa azione “ritardatrice” essenzialmente su sacrifici e comportamenti virtuosi volontari da parte di tutti i cittadini e delle aziende (social distancing, tele-lavoro, congedi anticipati ecc.) e solo in via secondaria su restrizioni coercitive.
Le restrizioni in Europa
Fra venerdì e domenica le cose sono cambiate radicalmente in gran parte dell’Europa. Fa eccezione il Regno Unito, dove il governo prevede che nel corso di un anno il contagio colpisca l’80% della popolazione, e che 8 milioni debbano essere ricoverati, eppure continua a rimandare l’adozione di energiche misure.
Ancora giovedì sera il discorso sull’emergenza di Macron non annunciava restrizioni obbligatorie, se non la chiusura di università, scuole e asili. Per il resto è stato una serie di raccomandazioni su comportamenti da adottare e di rassicurazioni sugli aiuti che lo stato stanzierà per compensare i danni subiti dalle famiglie e dalle aziende. Un vibrante appello alla “union sacrée” per affrontare risolutamente l’emergenza sanitaria senza che diventi una crisi economica e sociale. A fine settimana il Primo Ministro Édouard Philippe constatava che le raccomandazioni non avevano funzionato ed emanava divieti rigorosi.
La Spagna si è mossa solo negli ultimi giorni quando ha superato tutti i paesi europei eccetto l’Italia per numero di contagi, inclusi diversi ministri e deputati, e ha perciò chiuso il Parlamento, nonché scuole, stadi, musei. E in seguito si è allineata sul draconiano regime italiano.
L’Austria, che aveva introdotto un pacchetto di interventi il 10 marzo, quando il numero dei contagi era sotto i 200 e non si erano ancora registrati decessi, nei giorni successivi ha inasprito le restrizioni, fino ad allinearsi domenica sera al regime italiano, ma con due attenuazioni: libertà di fare passeggiate, purché da soli o con conviventi; flessibilità sulla chiusura di scuole e asili, che rimangono aperti per i casi in cui entrambi i genitori devono lavorare fuori casa (si vuole infatti evitare che i bambini vengano affidati ai nonni, troppo vulnerabili)
La Germania è più restia a restringere la libertà dei cittadini, e comunque non lo fa se non in accordo con i Länder. Venerdì 13 ha deciso la chiusura di scuole e istituzioni culturali, ma per il resto si accontenta di emettere raccomandazioni (tele-lavoro se possibile, rinunciare a viaggi non necessari ecc.) e chiudere le frontiere verso certi paesi, compresi Francia, Svizzera e Austria; i ristoranti e bar rimangono aperti, sia pure con limitazioni di orario e numero di clienti; è permesso andare a cena da amici. Il governo di Berlino mette l’accento sui provvedimenti allo studio per compensare le perdite di reddito, i congedi, le temporanee chiusure, e per garantire i posti di lavoro. Disposizioni costose ma che, viene sottolineato, la Germania si può permettere, grazie al pareggio di bilancio e alla riduzione del debito conseguiti negli anni scorsi. E’ il caso anche dell’Austria, ma non certo dell’Italia.
Il punto sull’economia
Secondo i tedeschi, il grosso dell’economia, tolti cultura e turismo, deve continuare a funzionare: non si concepisce di poter mettere agli arresti domiciliari tutto un paese, come da noi. Anche perché è evidente che la prospettiva di levare le restrizioni a fine marzo, ventilata in Italia, è illusoria.
I nostri partners hanno il vantaggio di poter studiare l’esperienza italiana, e di poterla additare alle loro opinioni pubbliche per giustificare rinunce e restrizioni che potrebbero sembrare eccessive. Ma vogliono evitare a tutti i costi di adottare rimedi che potrebbero rivelarsi più distruttivi del male, come fatto in Italia sotto l’incubo del default ospedaliero.
Non si tratta di mettere al secondo posto la salute rispetto all’economia, ma di tenere i piedi per terra per non generare il caos, o piuttosto la paralisi. Se è importante per la Germania, lo è a maggior ragione per l’Italia, che ha minori margini. Solo chi crede che l’epidemia si scioglierà come neve al sole in due-tre settimane può pretendere che si paralizzi un Paese sino a fine marzo per ripartire alla grande il 3 aprile. Se si perdesse quella scommessa, e l’economia dovesse essere tenuta in coma farmacologico per altri 2-3 mesi, rischierebbe di non essere più in grado di risollevarsi. Anche perché andrebbero perse fette di mercato, occupate da altri esportatori. Avremmo fallimenti a catena e un deficit a due cifre.
L’utilizzo del debito aggiuntivo
E’ un rischio che sembrano ignorare quei politici e sindacalisti che propongono di chiudere le fabbriche e mettere in cassa integrazione tutta una nazione, finanziandola con l’aumento illimitato del deficit e dell’indebitamento, senza curarsi dello spread che è già in salita. Ma non sarà con i 25 miliardi di debito aggiuntivo proposti dal presidente Conte e probabilmente autorizzati da Bruxelles che potremo trasferirci tutti nel paese di Bengodi. Quella flessibilità di bilancio deve servire, come si farà negli altri paesi, a mitigare i sacrifici altrimenti insopportabili imposti al settore turistico e a quello della ristorazione, agli artisti, ai precari, alle partite iva. Vi si deve attingere per pagare le baby-sitter, gli inevitabili nuovi cassintegrati, gli sconti fiscali e sussidi alle aziende danneggiate dalla crisi.
Quelle integrazioni ai redditi avranno, oltre alla finalità sociale, anche una funzione economica: evitare una massiccia caduta del potere di acquisto e quindi attenuare gli effetti recessivi delle misure anti-epidemia. Ma se nessuno producesse più nulla, alimenterebbero soltanto la domanda di beni importati, l’inflazione e la sfiducia dei mercati finanziari. Bene fa dunque il presidente Conte a resistere a quelle sirene.