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BANDIERA BIANCA SU TRIPOLI

Le dimissioni dell’inviato dell’Onu ed il conflitto libico

4 Mar 2020 - Paolo Quercia - Paolo Quercia

L’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, il libanese Ghassan Salamé, professore emerito di Sciences Po a Parigi, ha affidato ieri a twitter il suo laconico messaggio di dimissioni in lingua araba. La sua salute non gli consente più di reggere lo stress dell’incarico, dice. Incarico di inviato che per due anni ha cercato di portare avanti nell’indifferenza generale, abbandonato da tutti: non solo dai libici, che hanno continuato a combattere e a finire di distruggere il loro Paese; non solo dagli attori esterni, che hanno continuato ad armare le parti violando i numerosi embarghi; ma in primo luogo dalla sua stessa organizzazione, le Nazioni Unite, mai apparsa così in difficoltà nel gestire, anche solo sul piano diplomatico internazionale, una crisi che era di modeste proporzioni. Anche la salute dell’Onu appare precaria quanto quella del suo ex inviato in Libia.

Le difficoltà di Berlino
Appena un mese fa, a Berlino, vi era stata l’ultima possibilità di indirizzare la decennale crisi almeno verso uno scenario di congelamento delle ostilità. Angela Merkel era andata in soccorso dell’inviato speciale, riesumando il malconcio processo di pace “onusiano” nel contesto del processo di Berlino, buttandovi dentro tutto il peso del bilaterale con Russia e Turchia e cercando così di colmare le differenze tra i due Paesi, che a Mosca erano giunte ad un passo dall’accordo.

Ma l’impresa era ardita. Troppo ampie le diffidenze tra Mosca e Berlino, troppi gli attori fondamentali del conflitto libico assenti a Berlino o che non erano stati invitati per creare un’artificiale clima di intesa. Ma, soprattutto, era impossibile per tre attori non arabi ricucire le fila di un conflitto che riassume e confonde molti dei fattori di frammentazione e disgregazione del mondo arabo: i conflitti sul petrolio, i traffici di armi, le identità tribali, il ruolo dell’Islam politico, le milizie ed il warlordismo, il jihadismo e l’autoritarismo militare, l’insussistenza delle frontiere ed il contrabbando che le attraversa.

Tripoli e Idlib
Il processo di Berlino e la stessa pallida figura di Salamé sono state travolte dal precipitare della situazione siriana. L’avanzata delle forze del generale Haftar verso Tripoli e l’avanzata di quelle del presidente Assad verso Idlib sono ormai due direttrici militari di una stessa guerra divisa in due tronconi. Numerosi gli attori statuali e non statuali che combattono in entrambi i teatri, come confermato dalla visita di una delegazione del governo di Haftar a Damasco e dall’accordo tra i due servizi di intelligence di scambiarsi le informazioni sui combattenti libici in Siria e siriani in Libia.

Turchia e Russia sono i principali attori esterni in entrambi i conflitti, ma non vanno sottovalutate le capacità che i numerosi attori locali non governativi hanno di strumentalizzarli e di condizionarne le strategie. Sia Russia che Turchia stanno cercando di creare teste di ponte dei loro interessi in Libia ed in Siria, mettendo in campo limitate risorse economiche e militari. Giocando fuori casa dipendono molto dagli attori locali e, soprattutto, dai meno visibili danti causa.

La caduta di Salamé
L’ultimo fallimento di Salamé è avvenuto un paio di giorni fa a Ginevra, quando sia i rappresentanti di Tripoli che quelli di Tobruk hanno deciso di non presentarsi al troncone politico del dialogo mediato dalle Nazioni Unite. Non vi è più traccia del cessate il fuoco su cui si erano accordati il 12 gennaio i due fronti. Il fine settimana ha visto molteplici e gravi violazioni della tregua, con l’intensificarsi dei bombardamenti su Tripoli, mentre le truppe di al-Serraj appaiono sul punto di passare all’offensiva per rompere l’assedio sulla capitale.

Giovedì Erdogan volerà a Mosca da Putin. Più che un incontro per risolvere i due scenari sembra un tentativo di isolare i principali interessi di Mosca ed Ankara dai due conflitti che, forse, neanche loro sono in grado di controllare.