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LE SFIDE PER L'UNIONE

La trappola del bilancio europeo

10 Mar 2020 - Riccardo Perissich - Riccardo Perissich

C’è ampio consenso che i prossimi mesi saranno un test critico della capacità dell’Ue a far fronte alle sfide del momento. Fra le decisioni che dovranno essere prese c’è anche quella sul bilancio pluriannuale. Tuttavia, trasformare, come molti sono tentati di fare, questa pur importante questione nel test decisivo, equivarrebbe a cadere inutilmente in una trappola.

Le tribù europee
Come è noto, l’accordo è reso più difficile dalla perdita, a causa di Brexit, di circa 10 miliardi l’anno ed è bloccato dall’esistenza non di due, ma di almeno quattro tribù che perseguono obiettivi contraddittori. Ci sono i cosiddetti “frugali” (Olanda, Svezia, Danimarca, Austria) a cui interessa solo limitare le spese. Poi i “coesionisti” per cui la priorità è salvaguardare i fondi per la coesione (circa un terzo del bilancio). Inoltre gli “agricoli” che pensano principalmente ai fondi per la Politica agricola (un altro terzo). Infine, gli “innovatori”, che hanno a cuore le nuove politiche dell’Ue: consolidamento dell’euro ai fini della crescita, difesa, politica industriale, cambiamento climatico, ricerca, immigrazione, Africa (quello che resta). Alcuni paesi sostengono di appartenere a diverse tribù, ma a un certo punto dovranno scegliere.

In particolare, a quale tribù appartenga l’Italia è un segreto meglio costudito dell’identità del paziente zero; a meno di fondare una quinta tribù, quella dei “ma anche”. Possiamo essere abbastanza sicuri solo di una cosa: come sempre ci sarà un compromesso, ma poiché anche chi ha obiettivi multipli alla fine deve arroccarsi su poche priorità, a farne le spese saranno soprattutto gli “innovatori”. Conclusione deprecabile? Indubbiamente, ma da ricondurre alla sua giusta dimensione. Ciò che divide i governi è la differenza fra un bilancio limitato all’1% del Pil dell’Ue e uno limitato al 1,3%, che è la richiesta “massimalista” del Parlamento. Stiamo parlando di meno di 300 miliardi in sette anni. Sono una cifra importante, ma non me la sentirei di sostenere che da essa dipende la capacità dell’Europa di risolvere i propri numerosi problemi interni e riuscire a pesare in un contesto internazionale sempre più complicato e a volte ostile. Il risultato sarà comunque modesto anche a causa dell’emergenza coronavirus che esercita una nuova e imprevista pressione sulle finanze nazionali.

Tra risorse proprie e plastic tax
C’è un secondo elemento della trappola: pensare che il problema sarebbe risolto se il bilancio fosse alimentato da nuove risorse proprie dell’Ue. Cosa si cela dietro queste parole che sembrano evocare nuove magiche fonti di finanziamento? Contrariamente a ciò che molti credono, dal punto di vista legale il bilancio dell’Ue è già finanziato da risorse proprie, nel senso che i soldi che arrivano a Bruxelles costituiscono obblighi automatici dei paesi membri e non hanno bisogno di essere periodicamente votati dai Parlamenti nazionali come succede per le altre organizzazioni internazionali.

Nella sostanza si possono definire “proprie” solo quelle risorse per cui non è logicamente possibile stabilire un legame logico con l’economia dei singoli stati membri. L’esempio tipico, in realtà il solo, è quello dei dazi doganali e dei prelievi agricoli, i cui proventi difatti sono attribuiti fin dall’inizio nella quasi totalità al bilancio dell’Ue. Supponiamo invece che vengano attribuiti all’Ue i proventi di un’eventuale imposta sulla plastica, come alcuni propongono. I fondi transiterebbero comunque dalle casse nazionali e potrebbero essere attribuiti a ogni singolo paese esattamente come avviene per tutte le altre entrate attuali tranne quelle citate. Con questo non voglio dire che una tassa europea sulla plastica sarebbe necessariamente una cattiva idea. Forse è addirittura auspicabile, ma non cambierebbe in maniera radicale la natura del bilancio. In particolare, non cambierebbe in nulla la propensione di ciascuno a ragionare in termini di “giusto ritorno”, cioè il saldo fra ciò che si paga e ciò che si riceve.

Come uscirne
È possibile uscire dalla trappola? Bisogna cominciare con l’essere coscienti che non stiamo parlando di un bilancio nel senso che la parola assume nel di battito politico dei nostri paesi. Esso non è e non può essere il momento in cui si definiscono le priorità politiche dell’Ue. Ciò per diverse ragioni. Alcuni sembrano credere che il bilancio sia lo strumento per arrivare all’unione politica, mentre è vero l’opposto: senza una legittima unione politica non sarà mai possibile avere un “vero” bilancio, inclusa un’autonoma capacità d’imposizione.

In primo luogo, un bilancio che nella sua versione più ambiziosa, e come sappiamo al momento irrealista,  assorbirebbe solo il 1,3% del Pil, non può in alcun modo essere uno strumento di politica economica. In secondo luogo, l’attività principale dell’Ue, quella in cui da i risultati migliori, non è raccogliere e distribuire denaro, ma regolare l’economia per facilitare l’integrazione e promuovere determinati obiettivi collettivi. Inoltre, perché ormai da molto tempo, da quando si giunse a un compromesso con la Gran Bretagna sul suo contributo, tutti i governi dal primo all’ultimo ragionano in termini di giusto ritorno”. Sappiamo che quel calcolo è in parte arbitrario ed è un modo perverso per calcolare i costi e i benefici dell’appartenenza all’Ue. Tuttavia, tutti i responsabili, dopo aver convenuto che si tratta di un’aberrazione, tornano a casa e danno istruzione ai propri diplomatici di trattare sulla base del “giusto ritorno”.

La verità è che ciò che noi chiamiamo bilancio non è altro che un documento contabile che riassume i costi delle scelte politiche decise in comune, fatte salve le correzioni per evitare agli uni o agli altri carichi giudicati eccessivi. La fonte del problema non è quindi il bilancio, ma la mancanza di consenso sulle politiche. Se così non fosse, alcuni fra i paesi più ricchi del pianeta non si accapiglierebbero per cifre tutto sommato irrisorie.

Ciò non vuol dire che il negoziato in corso non sia importante. Converrà che ciascuno si batta per le sue priorità ed è auspicabile che il risultato sia il meno restrittivo possibile e meno prigioniero della logica del “giusto ritorno”. In passato, un compromesso sarebbe stato trovato sulla base di un accordo franco-tedesco. Oggi, questo è più difficile a causa della lunga transizione della politica tedesca e dalla obiettiva debolezza interna di Macron che lo obbliga, dopo essersi eretto a paladino dei nuovi ambiziosi orizzonti dell’Ue, a ritrovarsi costretto alla tradizionale difesa degli agricoltori francesi.

Prima il consenso
Tuttavia sarebbe un grave errore legare a questo negoziato il futuro della nostra credibilità, anche perché a un certo punto saremo comunque obbligati a spiegare all’opinione pubblica che si è trattato del miglior compromesso disponibile. D’altro canto, non sarà possibile spiegare a quella stessa opinione pubblica che bisognerà abbandonare tutti i progetti innovativi solo perché non siamo riusciti a mettere nel bilancio risorse adeguate.

Bisogna quindi tornare alla fonte vera dei problemi, che è la mancanza di consenso sulle politiche da perseguire. Se siamo coscienti di questo, dobbiamo anche convenire che il bilancio non è il terreno su cui si può sperare di trovare l’intesa. Poiché bisogna anche accettare che non sarà sempre possibile trovare accordi unanimi, sarà necessario che alcune iniziative –  in materia di difesa o di immigrazione, forse anche di politica industriale e altro – siano lanciate su una base di paesi più ristretta. In questo caso, sarebbe anche logico trarne le conseguenze finanziarie con contributi ad hoc dei paesi partecipanti al di fuori del bilancio dell’Ue. Prospettiva certo aberrante agli occhi dell’ortodossia, ma sicuramente migliore che dover frustrare le legittime attese dei cittadini. Se poi queste iniziative dovessero funzionare, arriverà anche il momento di integrarle nel bilancio dell’Unione europea.