La filiera alimentare alle prese con il coronavirus
L’emergenza sanitaria legata al diffondersi del Covid-19 sta mostrando forse per la prima volta per molti di noi il rischio di vivere in una situazione di insicurezza alimentare. Le immagini di lunghe code ai supermercati e di interi scaffali vuoti mostrano come le componenti della filiera alimentare e dell’epidemia interagiscano e producano impatti a livello nazionale, regionale e globale. Si tratta di una catena molto complessa, che coinvolge numerosi attori e fasi dalla produzione alla trasformazione, dalla logistica alla distribuzione, dalla ristorazione al consumo, dalla redistribuzione fino allo smaltimento.
Costruire sistemi alimentari sostenibili e resilienti è quindi fondamentale soprattutto in comunità altamente urbanizzate. Secondo la Fao, le città oggi consumano più dell’80% del cibo prodotto a livello mondiale e nelle periferie delle grandi metropoli milioni di persone vivono in cosiddetti deserti alimentari, senza accesso a cibo fresco e di qualità. Pensiamo per esempio alle difficoltà di nutrire una megalopoli di più di 10 milioni di abitanti come Wuhan in una fase di totale lockdown e agli effetti che questo può avere sulla salute pubblica, l’alimentazione e anche sulle crisi umanitarie.
In queste settimane, il World Food Programme sta da un lato sta monitorando i prezzi delle derrate alimentari in numerosi Paesi, dato che in alcuni casi (come il riso in Thailandia, Vietnam e Myanmar) sono aumentate del 10-15%. Dall’altro sta negoziando con i governi di vari Paesi per evitare che la chiusura delle frontiere possa impedire alle popolazioni in emergenza di ricevere aiuti umanitari. La riduzione dell’export alimentare cinese e le restrizioni alle frontiere rischia di bloccare o quanto meno rallentare le consegne di cargo o container umanitari, come accaduto ad esempio in Siria. Molti Paesi hanno poi chiuso le scuole e questo mette a rischio fino a 9 milioni di bambini che ricevono pasti dagli operatori del Wfp.
I tre rischi per la filiera alimentare
Il coronavirus può avere un impatto sulla filiera alimentare sotto molti punti di vista. In primo luogo, la pandemia rischia di dare un colpo terribile agli attori meno forti della filiera, come i piccoli produttori, i quali continuano a produrre la stragrande maggioranza di cibo nel mondo. La chiusura di scuole, mercati e piccole aziende di trasformazione impedisce loro di vendere i propri prodotti e provoca gravi danni anche per i ristoranti, diventati ormai le nuove fabbriche in numerosi Paesi. Inoltre, rispettare il distanziamento fisico non è semplice in periodi di raccolto o per esempio all’interno di strutture come i macelli e questo rischia di diffondere maggiormente il contagio. La salute degli operatori è fondamentale in periodo di pandemia, soprattutto se si pensa che l’età media dei contadini è sempre più elevata in molti Paesi del mondo. Nell’Unione europea, poi, il settore agricolo è dominato dagli over 60 e poco più del 10% dei capi azienda ha meno di 40 anni. La diffusione del contagio potrebbe infine produrre conseguenze drammatiche anche per la logistica del cibo, la trasformazione, la produzione di fertilizzanti agricoli o i rifornimenti di materie prime.
In secondo luogo, la globalizzazione del cibo rende tutti i Paesi vulnerabili a shock della filiera alimentare. Da un lato, in aree di libero commercio come l’Ue, la minaccia di chiusura delle frontiere mette non solo in pericolo valori e diritti fondamentali, ma anche l’equilibrio socio-economico di Paesi esportatori di derrate alimentari nel nord e sud globale. Dall’altro lato, le restrizioni commerciali per motivi sanitari possono bloccare intere filiere alimentari, provocando problemi di carenza di cibo per Paesi che sono altamente dipendenti dalle importazioni. Pensiamo ad esempio ai grandi porti e centri logistici internazionali come quello di Seattle, dove nelle scorse settimane il blocco delle operazioni ha impedito ad alcune navi container provenienti dalla Cina di sbarcare prodotti agro-alimentari. Tali blocchi potrebbero essere causati non solo dal diffondersi del virus tra gli operatori portuali ma anche tra gli ispettori sanitari che devono garantire che le merci importate rispettino i vari standard di sicurezza alimentare.
Infine, la pandemia può esporre a gravi forme di insicurezza alimentare le categorie più deboli che vivono nelle nostre comunità. La chiusura per motivi sanitari di numerose strutture come le mense caritatevoli minaccia coloro che già non hanno accesso a cibo sano e che vivono di donazioni di alimenti. Negli Stati Uniti, ad esempio, quasi 3 milioni di nuclei familiari composti da singoli anziani soffrono di insicurezza alimentare. È per questo motivo che in molte città le autorità pubbliche e il terzo settore si stanno organizzando per risolvere questi problemi. È il caso di Milano dove, pur in una situazione di estrema difficoltà, sono stati istituiti in collaborazione con numerosi enti caritatevoli sette hub temporanei di redistribuzione che consentono di consegnare ogni giorno circa 1 tonnellata di cibo per hub.
Cina e Italia a confronto
In Cina lo scoppio dell’epidemia ha prodotto sin da subito effetti importanti sul sistema alimentare: il tasso di inflazione alimentare ha raggiunto livelli record dopo otto anni nei primi mesi del 2020, con prezzi fino al 20% superiori rispetto all’anno precedente. La chiusura delle vie di comunicazione e del trasporto pubblico hanno create numerose interruzioni nella filiera alimentare, rendendo complicato il trasporto di cibo dalle zone rurali o dai porti ai centri urbani. Immaginiamo cosa sarebbe potuto accadere se ad essere colpita fosse stata non la città di Wuhan bensì un centro come Shouguang, il quale rappresenta il principale hub di produzione e distribuzione di verdura del gigante asiatico. Ciò ha consentito, nonostante le restrizioni, alla logistica di continuare a rifornire la città, evitando una crisi alimentare potenzialmente gravissime per una megalopoli.
La pandemia di Covid-19 rischia di avere ripercussioni importanti anche per l’intera filiera alimentare italiana. Al momento, secondo la Coldiretti, il nostro Paese ha scorte sufficienti per più di due terzi delle materie prime nazionali e i tre milioni di lavoratori della filiera alimentare insieme alle 740 mila aziende agricole e le 70 mila imprese di lavorazione alimentare continuano a garantire continuità alle forniture di cibo e bevande alla popolazione. I problemi principali per il Paese riguardano però le esportazioni, dal momento che la penisola esporta più del 70% della produzione (in particolare verso Francia, Germania, Regno Unito e Usa). In tal senso, l’adozione di blocchi, misure di contenimento o l’annullamento delle commesse tra Stati membri o extra Ue può provocare degli effetti negativi per le aziende nazionali. Per questo è necessario un maggiore coordinamento a livello europeo, per evitare forme di concorrenza sleale, garantire la libera circolazione delle merci e sostenere tutti gli attori che operano nella filiera.
Il 23 marzo la Commissione europea ha pubblicato una Comunicazione in cui offre delle indicazioni su come implementare le linee guida sul controllo delle frontiere pubblicate il 16 marzo. La comunicazione serve a garantire la libera circolazione delle merci nell’Unione anche durante la pandemia. Gli Stati dovranno istituire delle vere e proprie “green lane” per l’attraversamento dei confini per far sì che eventuali controlli anche di tipo sanitario sulle merci trasportate – inclusi i prodotti alimentari – non debbano durare più di 15 minuti.
L’emergenza attuale impone una serie riflessione su come proteggere i sistemi alimentari nazionali e mondiali da crisi globali. Ciò significa non solo ripensare gli attuali modelli di distribuzione, logistica e consumo, ma anche investire in politiche che favoriscano l’imprenditoria agricola giovanile. Infine, occorre evitare a tutti i costi che la paura del contagio favorisca l’emergere di nuove forme di nazionalismo o xenofobia economica con conseguenze drammatiche per il libero commercio e le economie di numerosi Stati, soprattutto i più deboli.