Israele: sistema proporzionale e instabilità governativa
Alla vigilia del terzo round elettorale in meno di un anno, Israele si trova a fronteggiare una delle peggiori crisi politiche della sua storia. La retorica fortemente divisiva del premier Benjamin Netanyahu, così come i suoi continui attacchi al sistema giudiziario e la sua precaria situazione legale si sono sommati alla frammentazione e alla polarizzazione tipiche della Knesset.
L’attuale situazione di stallo è profondamente radicata in un sistema istituzionale le cui debolezze sono state esacerbate da dieci anni di governo Netanyahu. In particolare, l’estrema proporzionalità del sistema e l’assenza di una Costituzione hanno reso lo Stato ebraico soggetto ai problemi di governabilità a cui assistiamo oggi.
Il sistema elettorale in Israele in pillole
Israele è stata fondata nel 1948 come democrazia parlamentare e dotata di un parlamento unicamerale, la Knesset. Questa si compone di 120 seggi ed è eletta con un sistema proporzionale a liste chiuse – ossia l’elettorato vota per il partito e non per il singolo candidato -. Ogni partito per entrare in Parlamento deve superare una soglia di voto che è stata gradualmente alzata fino al 3.25% introdotto nel 2014. Una volta esclusi i partiti che non superano la soglia elettorale, i seggi vengono distribuiti secondo il metodo d’Hondt, noto in Israele come metodo Bader-Ofer.
In breve, ciò che succede è che il numero complessivo dei voti validi viene diviso per 120 per ottenere quello che è chiamato “indice”. I voti ricevuti da ciascun partito sono divisi per l’indice ed è quindi possibile calcolare quanti seggi ogni partito ha vinto. Nel caso frequente in cui non vengano assegnati tutti i 120 seggi in questo modo, i voti in eccesso vengono assegnati dividendo il numero totale di voti ricevuti da una lista per il numero di seggi ottenuto dalla stessa più uno. Prima del voto i partiti possono decidere di concludere accordi per ridistribuire tra di loro i voti in eccesso, in questo caso ai fini dell’assegnazione dei seggi in più vengono considerati come una lista unica.
L’intero Paese è considerato come un unico distretto elettorale. In teoria, le elezioni si dovrebbero tenere ogni quattro anni ma di solito vengono convocate prima per l’impossibilità di mantenere unito il governo. Se uno dei partiti eletti riesce a guadagnare 61 seggi, controlla il governo. Nessun partito però è riuscito finora a conquistare la maggioranza alle urne. Dunque, una volta terminata la conta dei voti, il presidente della Repubblica assegna al candidato che ritiene nella posizione più favorevole l’incarico di formare una coalizione di governo.
Le conseguenze di un’estrema proporzionalità: il peso dei piccoli partiti nella Knesset
Il sistema proporzionale apparve all’epoca della Costituzione di Israele come l’opzione più democratica e la più adatta a creare un consenso tra le diverse componenti di una società estremamente sfaccettata dal punto di vista sociale, politico e religioso. Tuttavia, l’estrema proporzionalità del sistema ha permesso a una pletora di piccoli partiti, inclusi partiti agli estremi dello spettro politico, di entrare in Parlamento e di divenire determinanti nella formazione delle coalizioni di governo. Nel tentativo di evitare un voto di sfiducia e di garantirsi la maggioranza, il partito che forma la coalizione si trova a dover assecondare le richieste di partiti minori, ideologicamente diversi e con un’influenza spropositata rispetto al numero di seggi che effettivamente occupano nella Knesset.
Ad esempio, la coalizione al governo dal 2015 guidata da Netanyahu si è sfaldata definitivamente nel 2019 a causa dello scontro tra il partito secolarista di destra Yisrael Beiteinu, capitanato dall’ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman e i partiti haredi sulla questione della coscrizione degli ebrei ultraortodossi. Le trattative per la formazione di un nuovo governo dopo le elezioni di aprile 2019 si sono poi incagliate sulla stessa controversia, costringendo Netanyahu a chiedere nuove elezioni. Se fino al 1996, Labor e Likud componevano i due terzi della Knesset, dal 2000, non hanno ricevuto insieme più del 25% voti, a testimonianza della crescente frammentazione dell’orizzonte partitico israeliano.
L’opposizione dei partiti minori e l’assenza di un testo costituzionale che regoli il funzionamento del governo hanno reso difficile riformare il sistema in modo coerente. Nel 1992 venne introdotta ad esempio l’elezione diretta del primo ministro con l’obiettivo di rafforzare i due maggiori partiti, Labor e Likud. Tuttavia, lo sdoppiamento delle elezioni legislative ed esecutive ebbe l’effetto opposto e contribuì a rafforzare il ruolo di partiti con un’agenda particolaristica e settaria, improntata a soddisfare le esigenze di una ristretta constituency più che l’interesse nazionale. Sebbene si sia ritornati al sistema proporzionale nel 2001, sono rimasti l’indebolimento dei partiti più grandi a vantaggio di partiti più piccoli, una crescente personalizzazione della politica e la perdita di controllo da parte del premier e della leadership di partito sul processo legislativo.
Risultati prevedibili, esito incerto
Gli effetti concreti di queste falle istituzionali sono evidenti guardando al limbo politico in cui Israele ha vissuto negli ultimi 12 mesi. Il governo temporaneo guidato da Netanyahu, secondo quanto stabilito dalla Corte Suprema, non ha l’autorità di adottare leggi significative né il budget annuale creando ritardi nel finanziamento di organizzazioni dipendenti dai fondi pubblici. Inoltre, l’intero processo di formazione di un nuovo governo rischia di essere ulteriormente rallentato dall’inedita posizione del premier: il primo nella storia del Paese a ricoprire il ruolo pur essendo stato formalmente accusato di corruzione. In passato, altri premier, come il predecessore di Netanyahu Ehud Olmert, avevano rassegnato le dimissioni una volta accusati.
C’è poca chiarezza a livello costituzionale sul diritto di Netanyahu di ottenere l’immunità parlamentare e di essere rieletto nonostante le accuse. Da un lato, un’interferenza del giudiziario in questo contesto potrebbe essere problematica in termini di legittimità democratica dal momento che un procuratore generale non eletto rimuoverebbe di fatto un Primo ministro attraverso l’atto di accusa. Dall’altro, se Netanyahu rimanesse in carica nel prossimo governo, avrebbe il compito paradossale di supervisionare e lavorare con le stesse istituzioni che partecipano al suo processo. Senza contare la difficoltà di farsi carico degli obblighi istituzionali durante le procedure penali e del messaggio che passerebbe in termini di trasparenza del governo.
Israele naviga dunque in acque inesplorate. Se ci si aspetta che il risultato del voto del 2 marzo non si discosti da quello delle ultime due elezioni, ciò che succederà nei prossimi mesi a urne chiuse è invece imprevedibile, come è imprevedibile l’impatto che questa lunga crisi avrà sul futuro assetto istituzionale e costituzionale del Paese.
A cura di Stefania Sgarra, caporedattrice Medio oriente de Lo Spiegone.
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