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Terze elezioni in meno di un anno

Israele è di Netanyahu, ma mancano i numeri per governare

4 Mar 2020 - Daniel Reichel - Daniel Reichel

Notte tra il 9 e il 10 aprile 2019: “Ze layla shel nitzakhon adir”. Notte tra il 2 e il 3 marzo 2020: “Ze layla shel nitzakhon anak”. Le due frasi in ebraico sono molto simili e vogliono dire sostanzialmente la stessa cosa: “È la notte di una vittoria enorme”. Le ha pronunciate entrambe il leader del Likud Benjamin Netanyahu. La prima volta dopo gli exit poll delle elezioni dell’aprile scorso, quando il suo partito alla fine ottenne 35 seggi e il blocco di destra si fermò a 60 seggi, ovvero a meno uno dall’ottenere la maggioranza alla Knesset (61 su 120 eletti).

Bastava il sì di un parlamentare – allora si pensava a quello di Avigdor Lieberman, che avrebbe portato in dote i 5 seggi del suo partito Yisrael Beytenu – e Netanyahu avrebbe nuovamente guidato il governo di Israele. Non se ne fece nulla e si tornò a votare a settembre. Altro buco nell’acqua. Ora la notte di lunedì 2 marzo, Netanyahu è salito sul palco per dire nuovamente: “È la notte di una vittoria enorme”. I media israeliani, e non, si sono trovati d’accordo nel definirla tale eppure lo spoglio non è ancora finito – siamo al 92% – e la maggioranza non c’è. Secondo i dati più aggiornati, al momento Netanyahu avrebbe 35 seggi mentre il blocco di destra – formato dal Likud, i partiti religiosi Shas e Yahadut HaTorah e i nazionalreligiosi di Yamina – si attesterebbe a 58 seggi. 32 i seggi al momento assegnati a Blu e Bianco, il fronte opposto a Netanyahu guidato dall’ex capo di Stato maggiore Benny Gantz – e 16 quelli vinti dalla Joint Arab List, che ottiene uno storico terzo posto. Per definire, quindi, “vittoria enorme” quella di Netanyahu c’è ancora tempo.

Numeri in crescita nelle periferie
Rimane però chiaro il successo personale del premier più longevo d’Israele. Il leader del Likud, dopo la sorpresa di settembre in cui il suo partito si era posizionato dietro a Blu e Bianco ha preparato con cura questa campagna elettorale, la terza in un anno, rivolgendosi in modo mirato ad alcune fasce della popolazione, dagli agricoltori alla comunità etiope. Ha riportato migliaia di astenuti a votare, come dimostrano i dati di una maggiore affluenza alle urne, ha prosciugato Otzma Yehudit (il partito di estrema destra che rischiava di fargli buttare al vento voti, non entrando alla Knesset), ha riconquistato schede che prima erano andate alla destra laica di Yisrael Beytenu e a Blu e Bianco.

Nelle roccaforti del Likud, gli attivisti sono andati casa per casa, bussando e convincendo le persone ad andare a votare. A Beer Sheva, per esempio, città del Negev (Israele meridionale), il Likud ha ottenuto oltre il 60% delle preferenze contro il 12% di Blu e Bianco. Nel nord, ad Afula e a Tiberiade supera di poco il 50% contro un ben più risicato 17% di Gantz e compagni. Sono le periferie del Paese – e Gerusalemme – a riporre la propria fiducia in Netanyahu, a riportarlo in alto. Sono state le aree che paradossalmente avrebbero potuto avere più risentimento nei suoi confronti: Sderot, che vive costantemente sotto i razzi di Hamas e jihad islamica, avrebbe potuto optare per il cambiamento. E invece il Likud ha stravinto anche qui. O meglio, Netanyahu ha stravinto. Perché è lui a catalizzare i voti.

Alla ricerca di una maggioranza
Rispetto agli scenari politici e tenendo conto dei risultati, il primo ministro uscente avrebbe diverse opzioni davanti. Portare nella coalizione uno o due parlamentari dell’opposizione. L’accordo più naturale sarebbe con Lieberman (7 seggi), ma l’ex alleato non vuole sedere con i partiti religiosi e ha posto il veto su un governo a guida Netanyahu. L’alternativa è quindi puntare sui singoli: tra i giornalisti israeliani si specula su un possibile passaggio di Orly Levy-Abekasis, eletta con la lista di sinistra Labor-Gesher-Meretz (7 seggi) ma in origine membro di Yisrael Beytenu. Il padre è stato ministro degli Esteri del Likud e un suo cambio di casacca sembrerebbe un ritorno alle origini: ieri sera il Likud sembra le abbia offerto il ministero della Sanità e l’appoggio del partito per candidare il padre alla presidenza della Repubblica. Appoggio che sempre il Likud avrebbe però promesso anche al laburista Amir Peretz; ma due presidenti non possono esserci.

Ci sono nomi “corteggiabili” dal Likud anche nelle fila di Blu e Bianco, un partito nato sull’idea di battere Bibi Ha Melech (re Bibi, come è soprannominato Netanyahu) ma che per tre volte – seppur andandoci vicino – non è riuscito a farlo. L’ex generale Benny Gantz dovrà usare tutta la sua disciplina per evitare transfughi ora che il suo progetto è messo in dubbio: se i membri più di destra di Blu e Bianco dovessero passare con il Likud, significherebbe la fine del partito e probabilmente dello stesso Gantz come politico di primo piano. Magari non nell’immediato, ma abbiamo già un esempio nel recente passato: è infatti esattamente ciò che è successo a Kadima e a Tzipi Livni. Nel 2009, Livni era alla guida del partito più grande della Knesset (28 seggi). Nel 2019 ha chiuso la sua carriera politica, affossata di fatto dall’abilità politica di Netanyahu.

Incognita governo di unità nazionale
Se Blu e Bianco dovesse resistere alla tentazione di sfaldarsi potrebbe tornare in auge un’opzione già presentatasi ad aprile e settembre, quella del governo di unità nazionale. Per il momento non è credibile e dipenderà molto da quanti seggi alla fine otterrà il blocco di destra. Ma se Netanyahu dovesse rimanere bloccato senza maggioranza, l’opinione pubblica potrebbe premere in questa direzione. Soprattutto perché nessuno vuole una quarta elezione.

Il problema è che Gantz e molti dei suoi hanno chiarito di non avere nessuna intenzione di farsi guidare da un primo ministro sotto processo. Il 17 marzo infatti inizia il procedimento contro Netanyahu – incriminato per corruzione e frode – e Blu e Bianco non vuole fornirgli nessuno scudo. Anche per questo il leader del Likud spera di avere una coalizione autonoma: potrebbe far passare una legge come quella che in Francia garantisce al presidente l’immunità dai processi fino a fine dell’incarico (c’è un’immunità parlamentare, ma Netanyahu vi ha rinunciato). Si gioca tutto su un pugno di seggi e bisognerà attendere il voto dei soldati – l’ultimo conteggiato – per capire su quali binari si incamminerà Israele.