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L'ULTIMO SALUTO ALL'EX PRESIDENTE

Mubarak: il rais egiziano più longevo della storia

2 Mar 2020 - Remigio Benni - Remigio Benni

“Sono contenta che gli abbiano ridato l’onore che meritava prima della morte”: lo dice una giovane donna del Cairo, riporta il sito Ahram online, mentre sfila il fastoso corteo militare che accompagna la salma di Hosni Mubarak alla moschea addobbata per i suoi funerali. Nell’aria risuonano le 21 salve di cannone tributate in onore dell'”eroe della guerra del 1973“, il giovane pilota di caccia che guidò la sua squadriglia a respingere il primo sbarco delle truppe israeliane sulle sponde orientali del Sinai – truppe che invece successivamente ribaltarono la situazione.

Il commento nostalgico si riferisce all’assoluzione di Mubarak e dei suoi due figli dalle accuse di corruzione e di appropriazione di fondi pubblici per le quali erano stati processati dopo il 2011 (oltre alla precedente assoluzione del rais dall’aver cospirato per l’uccisione di manifestanti davanti a uno dei palazzi presidenziali durante le proteste popolari per deporlo).

Il 25 febbraio, dopo un intervento chirurgico ed un ricovero durato un mese, il rais egiziano più longevo della storia, che aveva “regnato” al Cairo per 30 anni, è morto. La sua scomparsa è stata salutata da titoli di giornali di tutto il mondo, così come da quelli cubitali della stampa egiziana, che ha pubblicato brani dei suoi discorsi. Suoi sostenitori ne hanno accompagnato le spoglie fino alla moschea dei funerali, innalzando al cielo suoi ritratti e canti celebrativi.

Trent’anni di governo
Il “processo di pace mediorientale“, il principio della “terra per la pace” (la pace degli arabi con Israele in cambio del ritiro israeliano dai territori palestinesi occupati durante la guerra del 1967), le risoluzioni Onu (242 e 338), la cosiddetta “pace fredda” (l’assenza di scontri armati, ma tensione sempre latente): era questo il clima nel quale il presidente Anwar el Sadat fu assassinato da un estremista islamico. Nello stesso clima il suo vice, il generale Hosni Mubarak, già comandante supremo della forza aerea egiziana, che era al suo fianco, prese il potere il 14 ottobre 1981. Il suo “regno” durò fino a quando fu costretto a lasciarlo, poco meno di 30 anni dopo, l’11 febbraio 2011, per la grande protesta popolare cominciata il 25 gennaio.

Mai si erano viste manifestazioni di così vasta portata, con occupazioni di strade e piazze, in particolare la grande Midan Tahrir, del Cairo, nella quale decine di migliaia di egiziani chiesero a gran voce per giorni “pane, lavoro, libertà”.

L’esercito, da sempre spina dorsale del Paese, si schierò di fatto a favore dei protestanti. Dopo la deposizione del rais – non vista di cattivo occhio da Washington, secondo alcuni ministri di quel periodo – il Consiglio supremo delle Forze Armate (Scaf), capeggiato dal ministro della difesa di Mubarak, il generale Tantawi, assunse i pieni poteri, lasciandoli solo dopo aver preparato le elezioni del giugno 2012, che portarono alla presidenza il candidato dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi. E si ritiene che un accordo tacito, realizzatosi tra militari e Fratellanza, forse con il placet degli Stati Uniti, ottenne l’effetto di svuotare la spinta rivoluzionaria della “primavera egiziana”.

Mubarak fu rigoroso nel sostenere che non ci sarebbe mai stata pace in Medio oriente se non se ne fosse realizzata una effettiva tra Israele e i palestinesi, dando poi origine a uno Stato palestinese indipendente. Si rifiutò per tutta la vita di andare in visita In Israele, con l’eccezione di quando nel novembre 1995 partecipò ai funerali di Yizthak Rabin, a suo dire l’unico statista di quella nazione che avrebbe mai potuto realizzare quella pace, e che per questo fu ucciso da uno studente estremista israeliano.

Il rais rimpianto
Oggi parte del popolo egiziano rimpiange il rais Mubarak perché, pur se la politica economica egiziana – specie nell’ultimo decennio della sua presidenza – aveva consolidato un indirizzo neo-liberale, soprattutto dietro influenza di suo figlio Gamal, tuttavia “il faraone” (così affettuosamente definito dai suoi sostenitori) si era a lungo rifiutato di cedere alle pressioni del Fondo monetario internazionale, più onerose per i cittadini. Aveva moderato le richieste di annullare i sussidi economici per vari generi (inclusi pane, zucchero, benzina) e si era rifiutato di far fluttuare la lira egiziana. Queste misure sono state poi attuate dal presidente Abdel Fattah Al Sisi nel tentativo di rimettere in sesto una condizione economica disastrosa.

Nei rapporti con gli Stati Uniti, il rais aveva sempre mantenuto una posizione amichevole, ma con note critiche. Aveva avvisato più di una volta, con toni accesi, Washington perché non invadesse l’Iraq nel 2003, così come nel 1990 aveva tentato di evitare l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq. Inoltre, in un’intervista insolita, proprio al quotidiano del Kuwait al Anba nel gennaio 2019, fece intendere che un’eventuale intervento militare americano in Iran avrebbe determinato gravi conseguenze in tutta l’area mediorientale. Così come, riferendosi ai palestinesi e Gerusalemme, dichiarò a giornali egiziani che “qualsiasi piano che sia imposto nella regione sulla base di uno squilibrio di poteri potrebbe portare ad una situazione talmente esplosiva che potrebbe scoppiare in qualsiasi momento’’.

Mixed feelings
Politologi egiziani considerano che alla sua scomparsa la figura del trentennale rais suscita tra la popolazione gli stessi “mixed feelings” che avevano accompagnato la sua presidenza: relativa simpatia per la persona (meno per la sua famiglia) e rancore per le condizioni disagevoli di vita. Per i più giovani, “quelli di piazza Tahrir“, fu amaro conoscere le gravi ferite, la morte, le torture e la privazione della dignità durante gli scontri con i quali la polizia tentò di bloccare le proteste. Anche se un’affermazione fatta nel 2019 dal presidente francese, Emmanuel Macron, appare riabilitare sul piano dei diritti umani la figura del rais scomparso: “Le politiche attuali vengono percepite da intellettuali e società civile egiziani come più dure di quelle praticate durante il regime di Mubarak’”.

Negli ultimi anni del suo potere, caratterizzato anche dal dilagare della corruzione, specie nell’apparato statale, Mubarak cominciò ad essere criticato per il poco nascosto programma di trasferire il “trono” al figlio Gamal, attraverso elezioni che dovevano tenersi nel novembre 2011. Il progetto, poco gradito al popolo, fu senza dubbio scarsamente condiviso anche dall’esercito, che temette di perdere il controllo su parte dell’economia egiziana detenuto da anni e che oggi voci di strada affermano sia aumentato in modo esponenziale.