Il Canada tra ambientalismo e sfruttamento energetico
Nella notte dello scorso 23 febbraio la compagnia energetica Teck Resources ha deciso di ritirarsi da un importante progetto di estrazione petrolifera nella provincia dell’Alberta, in Canada. In una lettera indirizzata al ministro dell’Ambiente canadese, l’amministratore delegato dell’azienda si è detto “dispiaciuto di essere arrivato a questo punto”, sostenendo però che non esistesse “un percorso costruttivo da seguire”.
Il passo indietro di Teck – ancor prima che il governo federale decidesse se approvare o meno la proposta della compagnia – è significativo per diverse ragioni, a cominciare dal valore economico del progetto: 20,6 miliardi di dollari canadesi, circa 14,3 miliardi di euro. Ma la rinuncia racconta molto anche degli scontri interni alla politica canadese e della crisi dell’industria energetica nazionale.
Le sabbie bituminose
Il progetto abbandonato da Teck Resources si chiamava Frontier e prevedeva la costruzione di una miniera nel nordest dell’Alberta, una provincia del Canada occidentale che possiede le terze riserve provate di petrolio più grandi al mondo, dopo il Venezuela e l’Arabia Saudita. Il greggio dell’Alberta – quello che Frontier puntava ad estrarre – è contenuto in giacimenti particolari chiamati “sabbie bituminose” (oil sands): sono depositi di sabbia e argilla impregnate di acqua e di bitume, un tipo di petrolio molto pesante, denso e viscoso. Il problema del bitume è che l’estrazione è sia difficile sia dispendiosa dal punto di vista energetico: da sole, le oil sands sono infatti responsabili dell’11% delle emissioni canadesi di gas serra.
Secondo le previsioni, il progetto Frontier avrebbe fatto crescere la produzione petrolifera del Canada del 5% e creato oltre novemila posti di lavoro, ma allo stesso tempo avrebbe portato all’abbattimento di migliaia di ettari di foresta boreale e all’emissione di quattro milioni di tonnellate di gas serra ogni anno – nel 2017 le oil sands ne hanno generati per 81 milioni di tonnellate. Il governo dell’Alberta e l’industria energetica mettevano l’accento sulla prima metà della frase, mentre gli ambientalisti insistevano piuttosto sulla seconda parte.
Nel mezzo, stretto tra le due posizioni, c’era Justin Trudeau, il primo ministro del Canada rieletto per un secondo mandato alle elezioni dello scorso ottobre. Ha promesso di azzerare le emissioni nette di Co2 entro il 2050 e dice che la lotta ai cambiamenti climatici è la sfida più grande della nostra epoca, ma allo stesso non può più ignorare la rabbia degli abitanti dell’Ovest.
Lo strappo politico tra Ottawa e l’Alberta
Il settore estrattivo è infatti fondamentale per le economie delle province occidentali e in particolare dell’Alberta, non ancora ripresasi del tutto dalla crisi del 2014, quando il crollo dei prezzi del petrolio e la fuga degli investitori causarono un’impennata del tasso di disoccupazione, che resta ancora oggi superiore alla media nazionale. Nell’Alberta, nel Saskatchewan, e in parte anche nel Manitoba, i sentimenti più diffusi sono l’inquietudine e la frustrazione, che trovano nel ‘verde’ Trudeau – accusato di non avere a cuore gli interessi della regione – il loro bersaglio principale.
La politica locale ha dunque ingaggiato un duro scontro con Ottawa per rivedere i rapporti di forza della Federazione in favore delle province occidentali: una parte dell’Ovest accusa l’Est di colonialismo ed esiste addirittura un movimento – di nome Wexit, cioè Western exit – che punta alla separazione dal resto del Canada. A fine febbraio, quattro parlamentari del Partito Conservatore hanno firmato un manifesto per avvertire dell’inevitabilità di un referendum sull’indipendenza dell’Alberta, a meno che Ottawa non accolga le richieste della provincia.
Uno dei principali punti di frizione tra il governo Trudeau e quelli di Alberta e Saskatchewan è la carbon tax, ossia una tassa sulle emissioni di carbonio. Tra la federazione e le province (ad opporsi c’è anche l’Ontario) è attualmente in corso una battaglia legale: di recente la Corte d’appello dell’Alberta ha dichiarato la tassa incostituzionale, e il caso arriverà presto alla Corte suprema.
La situazione politica è insomma estremamente delicata e impone a Trudeau di agire con grande cautela. Per questo gli analisti credevano che il governo, per non inimicarsi ulteriormente l’Alberta, avrebbe approvato il progetto Frontier, imponendo all’azienda il rispetto di ulteriori norme ambientali. Eppure, Teck Resources ha deciso di sfilarsi comunque, per ragioni che tuttavia non si esauriscono nel clima di scontro politico e sociale legato al tema energetico. Tra l’altro, dall’inizio di febbraio il Canada è attraversato da grandi proteste in sostegno di un popolo indigeno che si oppone alla costruzione di un gasdotto che dovrebbe attraversare il suo territorio: l’infrastruttura però permetterebbe di collegare i giacimenti di gas naturale con un terminal sulla costa della Columbia britannica, nell’ottica di una maggiore proiezione verso i mercati d’Asia.
Il mercato petrolifero globale
Per essere compresa appieno, la ritirata di Teck va inserita nel contesto generale del mercato petrolifero. A prescindere dall’assenso di Ottawa, investire nella miniera Frontier sarebbe stato comunque un rischio per la compagnia. Considerati i costi di estrazione del bitume dell’Alberta, il progetto si sarebbe rivelato insostenibile senza un prezzo del greggio al barile sufficientemente alto. Al momento, invece, il mercato petrolifero globale si trova in una fase di domanda stagnante, che si accompagna però ad un aumento dell’offerta proveniente da produttori esterni al cartello dell’Opec (ad esempio Brasile, Norvegia e Guyana, senza contare che gli Stati Uniti – subito oltre il confine canadese – dispongono di petrolio shale in abbondanza).
Grazie al completamento di nuovi oleodotti in Texas, si prevede poi che quest’anno le esportazioni petrolifere americane passeranno da 2,8 milioni a 3,3 milioni di barili al giorno. Il Canada, al contrario, soffre per la mancanza di condotte: gli oleodotti esistenti non bastano più e l’output, l’export e gli investimenti ne stanno risentendo negativamente. Nell’ottobre scorso la storica compagnia canadese Encana aveva annunciato che avrebbe lasciato il Paese per spostare le attività negli Stati Uniti, seguendo ConocoPhillips e Shell nel loro esodo dalle sabbie bituminose.