IAI
La difesa Cbrn e il Covid-19

Farsi ritrovare impreparati sarebbe imperdonabile

20 Mar 2020 - Michele Nones - Michele Nones

La pandemia del Covid 19 sta continuando a svilupparsi e, come sempre, il primo obiettivo in ogni emergenza, è quello di soccorrere le persone colpite e aiutare quelle coinvolte e, insieme, contenere le conseguenze negative.

Subito dopo bisognerà analizzare quanto accaduto e apprenderne le lezioni. Purtroppo, passato il pericolo, vi è sempre e ovunque una generale tendenza a rimuoverne il ricordo, guardando al futuro per non dover prendere atto degli errori commessi e dei cambiamenti che dovrebbero essere adottati.

È, quindi, importante cominciare a mettere le fondamenta di una riflessione che dovrà, poi, essere sviluppata a livello internazionale e nazionale.

Da dove partire
Punto di partenza dovrebbe essere la consapevolezza che nel campo Cbrn (chimico, batteriologico, radiologico e nucleare) o, meglio Cbrne (aggiungendovi anche gli esplosivi che ormai, con il crescere dei movimenti terroristici, non sono più solo quelli convenzionali) è difficile limitare l’area coinvolta, a meno che non sia molto periferica (come è stato nel caso di Ebola). Negli eventi batteriologici questo lo è particolarmente. Infatti, mentre in quelli chimici, radiologici e nucleari la propagazione è legata alle condizioni geomorfologiche e meteorologiche e all’intensità dell’evento, la trasmissione di un virus o di un batterio passa attraverso i contatti umani ed è, quindi, condizionata dall’organizzazione sociale e dal comportamento dei singoli.

Una delle conseguenze della globalizzazione è l’aumento esponenziale di questi contatti. Basti pensare all’internazionalizzazione del sistema produttivo con l’allungamento e l’allargamento della supply chain, all’esplosione del commercio internazionale, alla vertiginosa crescita del sistema dei trasporti (aerei, navali e terrestri) e del turismo, all’espansione delle attività internazionali di ricerca e formazione, ecc. Un evento batteriologico pone, quindi, inevitabilmente le autorità di fronte a scelte complesse e dolorose su quanto, come e quanto a lungo limitare la libertà di movimento al fine di tutelare la salute collettiva, ma con la consapevolezza che questo avrà un costo proporzionale sulla ricchezza collettiva.

Gestire i rischi
Solo teoricamente, quindi, un paese potrebbe anche evitare il contagio se, ammesso che l’informazione arrivi immediatamente (ma questo collide con il tempo di incubazione di ogni virus), decidesse di bloccare tutti e tutto ai propri confini. Questo farebbe collassare economicamente anche i sistemi più forti ed autonomi: impensabile per un paese come il nostro, la cui vita economica e sociale, persino quotidiana, dipende dall’interscambio con decine di altri paesi. Le limitazioni, invece, riducono rischi e danni, ma non possono eliminarli. Li possono, però, rendere gestibili.

La risposta emotiva di chiudere le frontiere è sempre destinata al fallimento se presa “a destinazione”. Può, invece, essere più efficace se presa “alla partenza”. Dovrebbero, quindi, essere i primi paesi coinvolti a bloccare i loro confini in uscita, esattamente come dovrebbero fare al loro interno circoscrivendo le aree colpite e giù giù fino a bloccare il movimento dei singoli cittadini.

Queste decisioni sono molto più facili, evidentemente, nei regimi autoritari, anche perché possono imporre più duramente ed efficacemente il rispetto delle limitazioni decise. Nei paesi democratici bisogna agire con maggiore prudenza e gradualità, persuadendo i cittadini più che costringendoli con la minaccia di sanzioni (per l’Italia, poi, dove si finisce con il condonare tutto, quest’ultimo strumento è ancora meno efficace).

La risposta razionale deve essere, invece, quella di prepararsi ad affrontare a livello internazionale e continentale questi rischi. Non è solo l’Organizzazione Mondiale della Sanità che deve essere rafforzata per poter meglio affrontare ogni emergenza sanitaria. È anche l’Unione Europea che deve essere ridisegnata. E, più in generale, è tutto il sistema di governance internazionale che dovrebbe essere riconsiderato perché, superata l’emergenza, gli effetti economici e sociali della pandemia sono destinati a farsi sentire pesantemente e molto a lungo in tutti i paesi.

Le tre P
In tutti gli studi realizzati sulla minaccia Cbrn la problematica del controllo della diffusione è sempre stata tenuta presente. In Italia da tre anni opera il Cluster Cbrn-P3, di cui lo IAI fa parte, che raccoglie gran parte degli attori nazionali e che nei suoi documenti, convegni, interventi esterni ha costantemente cercato di richiamare l’attenzione dei nostri decisori politici su questi temi. Le tre P indicano l’attività che dovrebbe sempre essere svolta per fronteggiare ogni forma di minaccia Cbrn: preparare, prevenire, proteggere. Purtroppo questo approccio non è mai stato praticato: in generale, siamo molto più capaci di gestire le emergenze che non prevenirle in tutto o in parte. Vale per gli eventi provocati direttamente o indirettamente dall’uomo, come gli attentati o i gesti folli o come gli incidenti industriali o nei trasporti (indipendentemente dal fatto che siano provocati da ignoranza, incuria, incoscienza, vetustà). E vale per gli eventi naturali (dove, però, in parte e spesso vi è anche la mano dell’uomo).

Preparare, prevenire e proteggere vuol dire definire e aggiornare procedure e catena di comando, addestrare il personale, avere tutto l’equipaggiamento necessario, elaborare un’adeguata politica dell’informazione, predisporre le norme da attuare per fronteggiare le emergenze. In altri termini, prevedere scenari emergenziali e addestrare tutti a gestirli: dai decisori politici a quelli tecnici, fino all’ultimo uomo e donna che verrebbe coinvolto. Tutto questo ha un costo, finanziario e umano, ma sarebbe in ogni caso inferiore a quello che alla fine ci costa ogni emergenza. Soprattutto nel campo delle capacità di intervenire per tutelare la nostra sicurezza (anche ma non solo sanitaria) la strategia non può essere “efficientista”, ma “prudenziale”: tagliare, come abbiamo fatto per tanti anni in Italia, troppi posti letto negli ospedali perché non erano utilizzati, significa oggi rischiare di non poter ricoverare i pazienti.”Mantenere delle capacità “inutilizzate” quando è in gioco la sicurezza del paese, come la sua difesa, non è uno spreco, ma una giusta cautela.

Di qui la necessità di cambiare il nostro modo di affrontare le emergenze perché sono inevitabilmente destinate a ripresentarsi in una forma o nell’altra. E farsi ritrovare sempre impreparati sarebbe imperdonabile.