Dinamiche siriane e contagi sullo scacchiere internazionale
“Stiamo vivendo uno dei momenti più allarmanti del conflitto, senza un’azione urgente il rischio di un’ulteriore escalation aumenta di ora in ora”. Il monito sugli sviluppi bellici in Siria è del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, intervenuto al Consiglio di sicurezza convocato dopo l’uccisione di almeno 34 militari turchi durante i raid delle forze di Damasco. Ai quali hanno fatto seguito azioni da parte di Ankara rilevanti perdite tra governativi e loro alleati. “L’esigenza più urgente è il cessate il fuoco immediato prima che la situazione sia del tutto fuori controllo”, ha detto Guterres alla riunione d’emergenza dei Quindici, spiegando che “è in corso la preparazione di una missione umanitaria” a Idlib per valutare la situazione sul terreno.
Faranno seguito dettagli più precisi da parte del Palazzo di Vetro, dove durante il Consiglio di sicurezza chiesto d’urgenza da Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Estonia e Repubblica Dominicana, si è assistito a un posizionamento decisamente pro-turco da parte di Washington, ammaliata dalle richieste di Ankara di possibili contromisure da parte della Nato. Soprattutto, è questa la lettura attraverso il prisma americano, come argine al “neo-espansionismo” di Vladimir Putin. Mentre l’Europa ad est si trova a dover fronteggiare la nuova emergenza migranti utilizzati come “arma letale” contro il Vecchio continente da Recep Tayyip Erdoğan.
Un passo indietro
Per comprendere lo sviluppo delle più recenti dinamiche sul territorio siriano e i relativi “spill over”, ovvero i contagi sullo scacchiere internazionale, occorre fare un passo indietro. La Siria, approfittando della debolezze dei gruppi jihadisti sostenuti dalla Turchia, a dicembre ha dato inizio, con il supporto di artiglieria e aviazione russa, ad un’avanzata nella provincia settentrionale di Idlib, ultima roccaforte delle formazioni jihadiste, soprattutto turcomanne.
Il punto è che in base agli accordi stretti da Russia, Turchia e Iran, Ankara avrebbe dovuto gestire le zone considerate “di sicurezza”, con l’impegno di separare e liquidare i gruppi terroristici da quelli che avrebbero potuto porsi come interlocutori in una eventuale de-escalationbellica. Così non è stato: ci sono formazioni vicine alla galassia qaedista – ex Nusra, per capirci – che continuano a operare nella provincia, compiendo attacchi contro postazioni governative e finanche a ridosso di quelle russe a Tartus e Latakia. L’intesa, iniziata con i colloqui di Astana del 2017, è pertanto decaduta di fatto: la Turchia continua a pretendere il controllo delle “zone cuscinetto”, la Siria vuole liberare tutto il territorio nazionale, la Russia rafforza il suo dispositivo militare nel Paese.
Lo scontro
Il cortocircuito di fine febbraio è scattato perché, secondo i russi, i soldati turchi si trovavano al di fuori delle postazioni di osservazione nella provincia di Idlib. Ipotesi che è stata seccamente smentita dallo Stato maggiore di Ankara. C’è poi un altro elemento: la difficoltà a distinguere sul campo truppe turche e ribelli, perché Ankara ha fornito ai miliziani mezzi e armamenti pesanti le cui sembianze non sono state cambiate. Colori e mimetismo sono gli stessi, pertanto è complicato capire a chi sono in mano.
La risposta turca non è stata meno violenta, e non ha riguardato solo postazioni e militari di Damasco, ma anche Hezbollah che operano sul territorio siriano – almeno 12 quelli uccisi – oltre a un ancora ignoto numero di “osservatori” iraniani. “Il conflitto è cambiato nella sua natura negli ultimi giorni”, ha sottolineato Guterres: traducendo dal linguaggio “onusiano” significa che la situazione “è molto più pericolosa di prima”. La Russia lascia aperto un canale di dialogo con la Turchia, lo stesso sul quale è stato condotto il negoziato libico, l’altro dossier strategico dove a dettare le regole è la dicotomia neo.egemonica Ankara-Mosca. Il punto è che Idlib sta incrinando questo canale.
Emergenza umanitaria
C’è poi il fattore umanitario, con circa un milione (948 mila secondo Syran American Medical Society) di sfollati in fuga dalla provincia settentrionale: molte donne e bambini, ma anche ex aderenti alla jihad che erano stati riposizionati a Idlib dagli stessi turchi man mano che le forze governative, assieme alla Russia, riconquistavano aree del Paese.
La morte dei suoi 34 militari è stata l’occasione per la Turchia di rafforzare la propria posizione sul piano internazionale. In difficoltà sul campo, Ankara cerca l’appoggio della Nato (e, attraverso questa, degli Stati Uniti), come fece nel 2015, trovando terreno fertile a Washington. L’ambasciatrice americana presso l’Onu, Kelly Craft, nel corso della riunione del Consiglio di sicurezza, ha detto chiaramente: “La Turchia ha il nostro pieno supporto nel rispondere per autodifesa ad un attacco ingiustificato”. Mentre il segretario di Stato Mike Pompeo ha fatto sapere che Washington “sta esaminando le opzioni per assistere la Turchia contro questa aggressione”. Opzione appoggiata dai falchi repubblicani al Congresso, come l’influente senatore Lindsay Graham.
Con l’Europa Ankara gioca la carta dei migranti siriani – potrebbero essere sino a quattro milioni, secondo l’Onu – ma anche mediorientali e asiatici, creando autostrade senza pedaggi percorse da centinaia di migliaia di rifugiati diretti verso Grecia e Bulgaria. E dinanzi alle quali, l’Europa distratta dall’emergenza del coronavirus si troverebbe a dover gestire un esodo di massa, persino peggiore di quello del 2015.
Ma c’è di più, perché la stessa dicotomia Ankara-Mosca (per alcuni una sorta di gioco delle parti “win-win”, ovvero dal quale traggono vantaggio entrambi) si replicherebbe in Libia, dove il sultano Erdogan ha la “golden share” sull’azionariato di Tripoli, e Putin rimane referente strategico di Khalifa Haftar. Un’Europa in affanno e disorientata dal silenzio americano (in contrapposizione all’assordante chiasso della Nato nel 2011), qualora si avventurasse in un’azione di contrasto all’afflusso di armi, specie contro i turchi, rischia di vedere Erdogan agire sui dispositivi di contrasto ai traffici di esseri umani nel Mediterraneo centrale, quelli dominati dalle rotte dirette in Italia.