Coronavirus: perché abbiamo superato la Cina?
Una data simbolica: il 27 marzo abbiamo superato in Italia la cifra dei contagiati da coronavirus cinesi accertati (82mila). Un indicatore molto grossolano, dato che i tamponi si fanno per lo più solo ai malati gravi e il totale effettivo è stimato essere 3/5 volte superiore. Più significativo è il dato dei decessi: 10mila, cioè il triplo della Cina, e in aumento costante.
Il numero delle persone risultate positive al test cresce rapidamente in tutta Europa e negli Stati Uniti (oltre 120mila casi il 29 marzo 2020), ma nessun paese, eccetto la Spagna, ha l’indice di letalità del nostro. In Corea del Sud è un decimo di quello della Lombardia. La Germania ha, in proporzione, meno di metà dei contagiati dell’Italia, ma meno di un trentesimo dei morti registrati. L’Emilia Romagna, con metà degli abitanti dell’Austria, ha una volta e mezza più contagi ma 15 volte più decessi. Un divario del genere si spiega solo in parte con differenze nei metodi di conteggio.
L’ammirazione e riconoscenza per il coraggio e l’abnegazione di tutto il personale sanitario non può impedirci di constatare che gli stessi ospedali (cui ora si aggiungono le case di cura per anziani) sono un focolaio di contagio e che le loro carenze sono la principale causa della abnorme mortalità. Lo ha scritto un gruppo di medici dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo in una lettera al New England Journal of Medicine. Essi hanno fra l’altro ammesso che a questa generazione era venuta a mancare l’esperienza di lotta contro le malattie infettive e che di fronte a un carico di lavoro travolgente non si sono applicate le necessarie misure, dalla totale separazione dei reparti al lavarsi le mani dopo ogni paziente esaminato. Hanno anche denunciato che sono obbligati a lavorare senza le adeguate protezioni e che è da tempo superato il “tipping point“, il punto di saturazione delle sale di rianimazione.
Carenze italiane e aiuti ingombranti
Questo stato di cose pone un interrogativo: era impossibile prevederlo, evitarlo, come se fosse uno tsunami? O avremmo potuto reagire con più efficacia qualora i dirigenti ospedalieri, l’Istituto Superiore di Sanità, il Governo si fossero informati tempestivamente presso i colleghi cinesi e coreani circa i metodi sperimentati per arginare il contagio all’interno degli ospedali e circa l’utilità del “testing and tracing” nella fase iniziale?
Ma le carenze più gravi che hanno facilitato la diffusione della malattia sono quelle materiali: dalle mascherine e i camici protettivi ai respiratori e le bombole di ossigeno, dai tamponi e i reagenti alla disponibilità di laboratori di analisi e tecnici. Penurie riscontrate anche negli altri paesi europei, grazie alla cultura della delocalizzazione, ma in misura più drammatica in Italia e Spagna. Anche gli altri europei, per non dire degli americani, hanno passato gennaio e febbraio a compatire i cinesi alle prese col nuovo virus, cullandosi nell’illusione che la Cina fosse molto lontana.
Abbiamo tutti assistito ammirati alla costruzione in dieci giorni di un gigantesco ospedale a Wuhan, e pur avendo proclamato lo stato di emergenza non abbiamo fatto nulla nei due mesi passati per riconvertire una piccola parte del nostro apparato industriale alla produzione di materiale protettivo, diagnostico e di terapia intensiva. Siamo andati in giro per il mondo a racimolare partite di mascherine, in concorrenza con altri paesi ugualmente imprevidenti; e ora ci affidiamo per le necessità più urgenti alla generosità non del tutto disinteressata di russi e cinesi. È solo alla fine di marzo che prende avvio, grazie ad una serie di iniziative private e un tardivo decreto che stanzia 50 milioni in incentivi, uno sforzo per soddisfare in loco una parte del fabbisogno. Per il resto continueremo a dipendere dalla Cina.
La penuria di guanti, tute e mascherine – non quelle chirurgiche, ma le FFP2 e FFP3 che proteggono dai virus chi le porta – è costata la vita a un gran numero di medici e infermieri. Ancora più micidiale è la mancanza di posti in rianimazione e delle relative apparecchiature. Sul mercato se ne sono trovate poche; per predisporre rapidamente una capacità produttiva adeguata all’emergenza ci sarebbe voluta una efficiente dittatura di tipo cinese. E così si è arrivati alla saturazione e al dramma di dover scegliere chi vale la pena tentare di salvare.
Impreparati per il worst case
E ciò nelle regioni che vantano, si soleva dire, uno dei migliori sistemi di sanità pubblica al mondo. Se e quando il contagio si sarà sviluppato appieno nelle regioni del Sud, dove i posti in terapia intensiva sono scarsi, l’indice di letalità rischia di raggiungere e superare quello della Lombardia. Quanto poco ci voglia per arrivare al livello di guardia lo dimostra il caso della Francia, che ha dovuto mandare alcuni pazienti in Germania, e quello di New York, cui la Marina sta portando una nave-ospedale.
Un governo lungimirante (non vale solo per l’Italia) avrebbe concordato con il mondo industriale l’avvio urgente della produzione di tutto il materiale protettivo e terapeutico necessario per il “worst case“, servendosi di incentivi e se del caso della condizionalità nel concedere sconti fiscali, cassa integrazione ecc..
Non ne vale la pena perchè ormai speriamo che il picco non sia lontano? Anche se così fosse, il rischio che quei prodotti marciscano nei magazzini della Protezione Civile è inesistente. Se ci saranno eccedenze, tanto meglio: ci permetteranno di venire in aiuto di paesi meno industrializzati quando il virus investirà l’Africa. O saranno pronte per difenderci meglio di ora se in autunno, quando sicuramente non avremo ancora il vaccino, arriverà una seconda ondata.