Coronavirus: “Conosciamo qualcosa, ma manca tanto altro”
Fabrizio Pregliasco, esperto in virologia e vaccinazione influenzale, è virologo presso il dipartimento di Scienze biomediche per la salute dell’Università degli Studi di Milano, nonché direttore sanitario dell’Irccs Ospedale Galeazzi di Milano. Al telefono, ha risposto alle domande di AffarInternazionali.
Siamo a circa un mese dall’arrivo in Italia del nuovo coronavirus. Cosa conosciamo del Covid-19?
“Di questo Covid-19 conosciamo alcune cose, ma ce ne mancano tante altre. Di fatto, abbiamo capito che non è un’influenza. È una patologia da cui si guarisce, ma spesso una quota – all’incirca del 20% – ha bisogno di un ricovero per un’assistenza e per una cura più intensa. Addirittura più del 5% necessita di assistenza respiratoria e di terapia intensiva. Una patologia che ha una buona capacità diffusiva – un R0 2,5 – che vuol dire due casi e mezzo in media rispetto a un caso indice. Abbiamo alcune indicazioni sul tempo di incubazione: 2-11 giorni in media; 5,2 per quanto riguarda l’incubazione. Abbiamo una difficoltà diagnostica, perché ovviamente la sintomatologia è un’infezione respiratoria acuta ed eventualmente con insufficienza respiratoria. Ci vuole un test, abbastanza rapido, che va fatto in strutture in cui lo si possa standardizzare. In ultimo, ci manca ancora un corollario di test per poter meglio profilare le caratteristiche della malattia, l’eventuale definizione di anticorpi protettivi. Non c’è ancora certezza, ma sembrerebbe che il paziente che supera la malattia rimanga immune. Abbiamo un po’ di farmaci, che stiamo utilizzando nel modo compassionevole, cioè mediante prove su piccoli gruppi di pazienti: la colcina, un antimalarico; dei farmaci bio-similari per malattie autoimmuni; alcuni antivirali efficaci per l’Hiv, piuttosto che per l’influenza. Però allo stesso tempo su alcuni elementi non abbiamo ancora certezze. Sul vaccino, che è in divenire, sappiamo che ci sono almeno 20 studi in corso, ma la tempistica per arrivare alla registrazione è comunque lunga. Ci manca ancora una valutazione rispetto al fatto che temperature più alte, o comunque situazioni più calde, possano renderlo meno diffusivo. Personalmente credo di no, perché le esperienze dell’H1N1 – l’influenza suina, ndr – ci dicono che la grande capacità diffusiva determina una facilità, almeno in questa fase iniziale. Non è ancora pandemia, vediamo se lo diventa – un fatto più burocratico che altro – perché ci sono già 91 Paesi colpiti. Vedremo, e ci manca ancora di tracciare completamente e chissà se riusciremo, di individuare almeno per l’Italia il famoso caso zero, che ormai è disperso; ma questo potrà servirci a posteriori per capire meglio la storia, non ora. Il virus è abbastanza stabile, le varianti di virus sono tutto sommato similari: la gran parte del genoma è stabile rispetto a quello cinese, tedesco e italiano. Rimane dunque ancora una scommessa sul fatto che la capacità di mitigazione, attraverso quarantena e isolamento, sia efficace. A Wuhan pare che stia andando bene, ma c’è ancora il dubbio della ripresa e noi siamo nel mezzo del guado di una situazione ancora in evoluzione”.
La differenza tra le vittime del nuovo coronavirus tra Italia e gli altri Paesi europei. Come mai questa grande diversità di cifre?
“Siamo ancora in una fase espansiva. Resta molto difficile stabilire la letalità di qualsiasi epidemia in questa fase, perché i casi notificati sono sempre sottostimati. Sicuramente, anche in questa circostanza, con una patologia così variegata e confondibile con l’influenza, soprattutto nel periodo iniziale, si tratta di una questione di denominatori. Voglio dire che dipende dalla definizione del caso e dalla modalità con cui lo si conteggia e come si approfondisce la valutazione in merito a casi positivi. Noi in Italia abbiamo fatto una scelta giusta, ossia di tracciatura del caso uno. Caso uno che poi forse non lo era nemmeno, magari era il 200… chissà”.
Professor Pregliasco che idea si è fatto sulla comunicazione? Sono stati commessi degli errori? Inizialmente si è parlato di un’influenza, oggi vengono fuori testimonianze che descrivono le condizioni dei ricoverati come abbastanza gravi.
“Questa non è un’influenza, è un’infezione respiratoria acuta con delle sue caratteristiche pesanti, diverse. Questo perché l’influenza vera e propria è una patologia che ha effetti non pesanti: cinque giorni con sintomi sistemici, febbre e sintomi respiratori che poi passano. Ha una mortalità diretta irrisoria e una indiretta, invece, rilevante, che in Italia va dai 4 mila agli 8 mila morti all’anno, in funzione della diffusione relativa delle varie stagioni (dai 3 agli 8 milioni di soggetti colpiti negli ultimi anni). L’influenza è una patologia che noi diamo per scontata, per cui c’è un vaccino, di cui peraltro si parla poco e si potrebbe fare meglio. Qui il problema è che nella prima fase della presenza di un virus nuovo, c’è il rischio di una situazione che può riprodurre il disastro di una pesante pandemia, come quella della spagnola del 1918. Pur ricordando i contesti diversi, la difficoltà di controllarla, la guerra in corso, il risultato di quella spagnola – variante nuova di un virus influenza in questo caso, ma con caratteristiche similari – ha portato in una prima ondata una presenza di patologie del 35/40% in breve tempo, con una quota di mortalità. Il problema più rilevante è che quello che stiamo seguendo adesso, in particolare in Lombardia, è una eccessiva presenza di casi che stanno saturando le terapie intensive“.
In ultimo, il nostro sistema sanitario come sta reagendo? Cosa dobbiamo aspettarci in prospettiva se le percentuali di crescita continuassero ad essere queste?
“La Lombardia è nella fase espansiva, arriverà a un picco ancora da raggiungere, probabilmente entro la fine di aprile. Seguiranno anche altri territori, come anche altre nazioni. Noi siamo a 40 giorni circa di ritardo rispetto alla Cina, almeno secondo i dati ufficiali. La Germania è a otto giorni in ritardo rispetto a noi. Ma insomma l’espansione, negli Stati Uniti e in altri Paesi, si farà vedere e questa problematica ci farà compagnia per diversi mesi, poi dipenderà anche da quanto gli aspetti della mitigazione potranno essere attuati. La comunicazione è stata sicuramente un problema, è un caso da studiare. Rispetto alle difficoltà di un sistema democratico come il nostro, che poi si basa su servizi regionali, che all’inizio sono andati un po’ per la loro strada, e sulla necessità di una catena di comando molto “militare”, diciamo così. Sicuramente, alcuni aspetti, tra cui le comunicazioni anticipate di un testo di legge, hanno creato conseguenze che sono state più negativi che altro. Sappiamo anche, però, che il decisore politico ha sempre torto. Ricordo, per un confronto, l’uragano Katrina con George W. Bush che fu all’epoca contestato perché mancò una giusta reazione alle devastazioni di aree degli Stati Uniti. Ricordo altresì le critiche a Barack Obama per un tifone di cui non ricordo il nome, e non lo ricordo perché si rivelò poi niente di più che una pioggerellina. Il presidente decise di impiegare la Guardia Nazionale, facendo evacuare parti rilevanti del Paese, qualcosa che poi si rivelò non necessario. Questa è la difficoltà dei decisori politici. Tutto ciò ci fa vedere la fragilità del nostro mondo e della speranza che noi abbiamo di controllare la natura. Questo, come altri avvenimenti recenti, ci devono far riflettere. Nel passato ci è andata abbastanza bene… Sars, Mers, Zika, Aviaria, H1N1. Il Covid-19 è senz’altro la problematica più pesante in termini di sofferenze umane ed economiche degli ultimi anni”.