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Scambio di territori con la Serbia

Cade il governo Kurti: sul Kosovo è Usa contro Ue

27 Mar 2020 - Dario D'Urso  - Dario D'Urso 

Alla fine è successo: con una maggioranza di 82 voti a favore, 32 contrari e un astenuto, l’Assemblea del Kosovo ha sfiduciato il governo di Albin Kurti a soli 51 giorni dal suo insediamento, ponendo fine a uno dei pochissimi tentativi di rinnovamento politico in una regione – quella dei Balcani occidentali – sempre più caratterizzata da un’asfittica accettazione di élite che offrono stabilità in cambio della loro permanenza al potere e della relativa fruizione di risorse pubbliche.

Si tratta di dinamiche già viste in altri Paesi della regione, ma che in Kosovo hanno un’aggravante: la caduta del governo Kurti ha avuto la benedizione – anche se forse sarebbe più corretto parlare di appoggio – degli Stati Uniti, la cui influenza sulle dinamiche interne nell’ex provincia serba ha liquidato le posizioni di importanti Paesi europei come Germania e Francia, intervenuti forse troppo tardi nella difesa del giovane leader di Vetëvendosje. Un dramma politico, che lascia il Piccolo paese in balìa di forze più grandi di , consumato sullo sfondo della pandemia di coronavirus – che ha colpito il Kosovo con (finora) 71 casi –, usata come pretesto per la resa dei conti tra il premier Kurti e il presidente Hashim Thaçi, i due “migliori nemici” divisi soprattutto su come raggiungere la normalizzazione delle relazioni con la Serbia.

Il governo Kurti nacque dopo quattro mesi di difficili negoziati tra i primi due classificati alle elezioni dell’ottobre 2019: Vetëvendosje, partito progressista con sfumature populiste e pan-albanesi nato nel 2005 come movimento civico di protesta contro le percepite ingerenze internazionali nella vita del Paese, e la Lega Democratica del Kosovo (Ldk), asse portante della politica kosovara sin dagli anni ’90 ed emblema dell’establishment locale di matrice conservatrice.

L’esecutivo è stato da subito caratterizzato da una certa fragilità, ma è il contrasto tra Kurti e il presidente Thaçi (Pdk) a marcare la sua breve vita. Il punto centrale della disputa è la ripresa dei negoziati per la normalizzazione delle relazioni tra Pristina e Belgrado, lanciati dall’Unione europea nel 2011 ma praticamente in stallo dal raggiungimento di un primo accordo nel 2013 – la cui applicazione è rimasta in larga parte lettera morta. Nel 2018, l’idea di uno scambio tra la porzione di Kosovo a maggioranza serba a nord del fiume Ibar e la Valle di Preševo a maggioranza albanese nel sud della Serbia messa sul tavolo di Bruxelles da Thaçi e dal presidente serbo Aleksandar Vučić aveva fatto intravedere il successo dei negoziati e la normalizzazione dei rapporti, prima di incappare nel veto della Germania, preoccupata per il vaso di Pandora che si sarebbe aperto avvallando la modifica dei confini nazionali nei Balcani.

L’appoggio americano
La sponda negata da Berlino è stata però offerta da Washington, con l’amministrazione di Donald Trump – intenzionata a ottenere un successo diplomatico da poter spendere in campagna elettorale – pronta ad offrire il proprio appoggio a una soluzione che portasse al riconoscimento reciproco tra Serbia e Kosovo, inviando lettere ai due leader per spingerli in quella direzione e nominando l’ambasciatore statunitense in Germania Richard Grenell inviato speciale per il dialogo tra Belgrado e Pristina. Il nuovo iperattivismo statunitense – che ha incluso, tra febbraio e marzo di quest’anno, un accordo per il ripristino dei collegamenti aerei e ferroviari tra le due capitali – non ha preso alla sprovvista soltanto gli europei, ma lo stesso Kurti, fermo oppositore di qualsiasi scambio territoriale, contribuendone ad allargare il divario con Thaçi.

La pressione sul premier kosovaro da parte americana è incrementata nelle ultime settimane, a fronte del suo iniziale rifiuto di eliminare i dazi del 100% sulle merci serbe decise dal suo predecessore come ritorsione al veto di Belgrado all’ingresso di Pristina nell’Interpol l’anno scorso – con minacce velate da parte di Washington di ritirare i soldati statunitensi dalla Kfor, la missione di peacekeeping Nato in Kosovo. Le tensioni tra Kurti e Thaçi sulle competenze in politica estera e, soprattutto, sulla tenuta dei negoziati con la Serbia – che il premier vorrebbe in capo al governo e non in mano al presidente – hanno raggiunto il punto di non ritorno con l’arrivo della pandemia in Kosovo, e con l’aiuto del Ldk. Quando Kurti ha licenziato il ministro dell’Interno (e membro del Ldk) Agim Veliu per il suo sostegno alla proposta di Thaçi di dichiarare lo stato di emergenza per il Covid-19 – mossa che avrebbe trasferito i poteri dell’esecutivo al Consiglio di sicurezza nazionale, guidato dal presidente – la fine del governo ha preso le sembianze di una mozione di sfiducia presentata dal suo stesso partner di coalizione e votata a larghissima maggioranza, nonostante gli appelli di Parigi e Berlino a non scatenare una crisi politica in un momento così critico.

Occasione persa per la credibilità europea
La fine del governo Kurti per mano del Ldk porta la normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado targata Trump a un passo. Un nuovo governo tra Ldk e Pdk avrà, infatti, gioco facile nell’approvare lo scambio di territori tra Kosovo e Serbia, pagando così il prezzo altissimo richiesto dalla Casa Bianca e fomentando potenzialmente l’instabilità che ancora contraddistingue la regione.

Kurti non è l’unica vittima della diplomazia muscolare Usa: l’Unione europea e i suoi Stati membri hanno perso per troppo tempo l’iniziativa in quello scenario, pagando ad esempio la scelta di non concedere la liberalizzazione dei visti ai cittadini kosovari, nonostante il parere favorevole della Commissione, e concentrandosi su negoziati troppo tecnici e poco politici, che hanno lasciato ampi spazi ad attori con agende quasi del tutto opposte a quella europea.

Il rischio per la credibilità europea di una sfida “nel giardino di casa” è troppo alto per essere lasciato al caso: la Commissione”‘geopolitica” di Ursula von der Leyen non può abbandonare il Kosovo alla Casa Bianca di Trump.

Le opinioni espresse appartengono unicamente all’autore e non riflettono necessariamente l’opinione della Commissione europea o del Servizio europeo di azione esterna.