BoJo e il coronavirus: ragioni e disappunto
La via nazionale alla lotta al coronavirus non ha convinto un’opinione pubblica sempre più preoccupata e Boris Johnson ha dovuto correggere rapidamente il tiro. La City, imprese, ristoranti e cinema non hanno perso tempo nell’adottare misure di emergenza ricalcate su quelle di altri in Europa, senza attendere istruzioni dal governo.
Johnson puntava a un asse con Trump – il quale aveva bizzarramente, ma non a caso, escluso il Regno Unito dal blocco dei voli dall’Europa verso gli Stati Uniti – ed è rimasto spiazzato da un Presidente che ha capito come, aspetti umanitari a parte, l’inerzia sul coronavirus rischiasse di affondare la sua rielezione. Si è trovato in compagnia del solo olandese Mark Rutte (per ora) nel sostenere l’immunità di gregge come una via umanamente costosa, ma vincente, e non ha rinunciato alla sua linea.
Non si tratta tanto di superficialità o peggio, quanto di un atteggiamento culturale e ideologico che ricomprende i pareri espressi dai suoi consiglieri scientifici: un comportamento che nasce da una visione della società in cui la britishness assume un carattere di “separatezza” sempre più marcato e la Brexit non è solo un discrimine economico.
Una pandemia come questa ha un costo elevatissimo tanto in termini umanitari, aggravato dall’incertezza sulla natura e durata del virus, quanto di una recessione economica che può essere devastante e di cui, ancora una volta, c’è incertezza quanto ai possibili rimedi. Si tratta di due aspetti concatenati fra loro in un rapporto di causa-effetto, ma la priorità – in Italia e non solo – è chiara: è necessario salvare innanzitutto quante più vite possibili mobilitando risorse ordinarie e straordinarie, senza porsi limiti, lasciando alla politica economica di trovare gli strumenti per una ripresa efficace man mano che si ristabilisce la normalità.
La linea di Johnson è simmetrica rispetto alla prima: la stabilità economica è la chiave della prosperità di un Paese e, in caso di crisi epocali come questa, è innanzitutto ad essa che si deve pensare, perché è difendendo l’economia che si possono tutelare i cittadini e accorciare i tempi dell’emergenza.
Se ciò ha un costo in termini di vite umane, pazienza, è necessario sopportarlo in nome dell’interesse generale preminente. La frase sulle “famiglie che devono prepararsi a perdere molti dei loro cari” è espressione di una goffaggine oratoria e di un’alterigia sorprendente per qualcuno che primeggiava nella debating society a Oxford, ma riflette un pensiero preciso: la salvaguardia della vita delle persone non può essere la premessa, bensì la conseguenza di una azione che deve avere il suo fulcro nella capacità del Paese di agire economicamente. In altre parole, di produrre e gestire denaro. Il non detto è che le vittime apparterrebbero perlopiù alla parte più debole e socialmente onerosa della popolazione. Ah, Napoleone e la sua visione di una “nazione di bottegai”…
Johnson ha parlato al suo zoccolo duro, fatto di elettori fieri della propria diversità e autosufficienza, che guardano con sospetto a tutto ciò che è “straniero” e vedono nel pragmatismo la chiave di volta della loro identità. All’Inghilterra dello stiff upper lip degli shires ricchi del Sud Est, convinta che chi ha saputo respingere in solitudine settant’anni fa la minaccia nazista non si farà sconfiggere da questa emergenza e subire condizionamenti dall’Europa. Ma anche, paradossalmente, all’Inghilterra depressa e de-industrializzata del Centro e del Nord, che ha ceduto alle sue sirene nelle ultime elezioni.
Era convinto di avere con sé la maggioranza del Paese e invece – sorpresa! – si è scontrato con la reazione dell’altra Inghilterra, quella che vive nel mondo, si riconosce negli ideali europei e attribuisce valore alla persona e alla solidarietà umana, prima che al denaro. È un’Inghilterra considerata a lungo minoritaria, che è emersa con una forza inattesa nel piangere contro l’albagia della Corona la morte di Diana, per poi ritornare nelle retrovie del potere. E che è insorta ora per dire che i vecchi sono importanti e i distinguo utilitaristici fra deboli e forti sono moralmente inaccettabili, e pazienza per il mercato.
Si sono aggiunte la Scozia e il Galles: la decisione di introdurre autonomamente le restrizioni necessarie, rimarcando la propria autonomia rispetto alla “nazione” inglese, confermano che il one nation party evocato da Johnson dopo la schiacciante vittoria elettorale dei tories, rischia di trasformarsi in un acceleratore non voluto della disgregazione sociale ed economica – e per ora non ancora politica – del Regno Unito.
Il purtroppo prevedibile aggravarsi dei contagi spingerà il governo a uniformarsi a quanto viene fatto altrove, ma continuerà a farlo di malavoglia rivendicando a ogni passo – e speriamo che non sia troppo tardi – il diritto di muoversi in autonomia rispetto al resto dell’Europa, proprio nel momento solo una completa unità di intenti potrebbe consentire di far fronte all’emergenza.
Anche Johnson dovrà chiudere i battenti e limitare la sua retorica; restano l’amarezza e il disappunto nel vedere un Paese che è stato un riferimento imprescindibile per moltissimi – e che è parte inscindibile di me – richiudersi in un autolesionistico bozzolo di illusoria diversità.