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Il Piano di pace per il Medio oriente

Trump snobbato dai grandi quotidiani internazionali

2 Feb 2020 - Laura Mirachian - Laura Mirachian

Nessuno dei grandi quotidiani internazionali – Financial TimesTimes International, New York Times, Le Monde o El Mundo – ha pubblicato in prima pagina la notizia del Piano di pace presentato il 28 gennaio dal presidente statunitense Donald Trump come ‘The Deal of the Century’. Solo Frankfurter Allgemeine Zeitung e New York Times hanno dato qualche rilievo, il secondo rilevando che il Piano è funzionale alle circostanze in cui si trovano i due protagonisti, il premier israeliano Benjamin Netanyahu e Trump stesso, accomunati dai rispettivi obiettivi elettorali e contenziosi giudiziari.

Parrebbe che la rete 5G Huawei e l’epidemia cinese siano di gran lunga le priorità mondiali. In effetti, è così. Non solo perché la questione del Medio oriente, un tempo identificata con il conflitto israelo-palestinese, è calata drasticamente di importanza rispetto ai problemi del Grande Medio oriente, leggasi Iran, ma perché un diffuso scetticismo pervade fin d’ora prospettive ed esiti del Piano stesso.

L’abbandono della formula dei due Stati
Ribaltando i parametri sui quali la comunità internazionale si è accomodata in questi decenni, il Piano, nelle grandi linee finora descritte, si allontana dall’ipotesi dei ‘due Stati che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza’ per privilegiare la sicurezza di Israele, intesa in senso letterale, come sicurezza dei confini garantita da una piena sovranità, non come reciproco riconoscimento tra due popoli, due identità, due storie. Cosicché, oltre ai muri difensivi e alle guarnigioni in stato d’allerta lungo le tortuose linee di demarcazione di oggi, avremmo d’ora in poi (il condizionale è d’obbligo) una parte di Cisgiordania annessa ad Israele, ivi inclusa la Valle del Giordano, un territorio palestinese indipendente racchiuso entro il territorio israeliano, smilitarizzato, con una sua capitale in un sobborgo periferico di Gerusalemme (Abu Dis?), un lungo tunnel di collegamento tra Cisgiordania e Gaza, e non ultimo una Spianata delle Moschee/Monte del Tempio a sovranità israeliana.

Con due ambasciate Usa a presidiare i nuovi assetti, e una cinquantina di miliardi di dollari a titolo di compensazione e sviluppo per i palestinesi. Se ne riparla tra quattro anni, con l’intesa di congelare nel frattempo la politica degli insediamenti e di prevedere eventuali scambi di territori. Del resto, Trump aveva predisposto questo scenario da tempo, via via cessando ogni contributo all’Unrwa, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele e trasferendovi l’ambasciata, e prima ancora le Alture del Golan siriano come parte integrante di Israele, e confutando l’illegalità degli insediamenti in Cisgiordania.

Le reazioni dei Paesi arabi e la sovranità della Palestina
Imbarazzo dello sfidante Benny Gantz, il leader di Blu e Bianco convocato a Washington separatamente da Netanyahu, discreto silenzio degli ambasciatori di Oman, Barhein, Emirati presenti all’annuncio, reticenze del mondo arabo che conta. Alle prese, da un lato, con una diffusa contestazione di larghi settori sociali nei propri Paesi, e ansioso, dall’altro, di non compromettere il sostegno americano nella grande partita contro l’Iran. Occasione subito raccolta da Turchia e Iran, che hanno riempito il vuoto assecondando le proteste delle piazze palestinesi in corso e presumibilmente di quelle che verranno e al contempo offrendo un’utile distrazione alle opposizioni interne.

Eppure, proprio dai grandi Paesi arabi, Egitto e Arabia Saudita, Washington potrebbe attendersi un’azione di incoraggiamento sulla riluttante, ma impotente, leadership palestinese. Un’azione, non tanto di improbabile mediazione, quanto di incoraggiamento a non rifiutare a priori il negoziato e a rinunciare ad intenti bellicosi, e soprattutto di riassicurazione in tema di garanzie per i diritti civili dei palestinesi nei nuovi prefigurati assetti e di protezione della miriade di rifugiati, tanto più ora che l’Unrwa è a corto di fondi e che gli Assad di Damasco non sono più in grado di ospitarli.

Se il saudita Mohammed Bin Salman e l’intera Lega Araba potranno agevolmente soprassedere, accantonandolo, al Piano di pace saudita del lontano 2002, e lo stesso Abu Mazen ha finora evitato di minacciare la sospensione della vigente collaborazione di sicurezza ai sensi degli Accordi di Oslo, un problema acuto potrebbe porsi invece per il re giordano Abdullah, firmatario di una pace con Israele fin dal 1994 e responsabile della custodia della Moschea Al-Aqsa, luogo tradizionalmente conteso con il Monte del Tempio. Non a caso egli ha segnalato un altolà.

Speculazioni di fonte israeliana avanzano infatti l’ipotesi che l’annessione ad Israele della Valle del Giordano sia solo il primo passo, sulla spinta di ambienti estremisti, per organizzare una Confederazione con una Cisgiordania ridimensionata, a maggioranza palestinese: in altri termini una Palestina nell’odierna Giordania, peraltro a tratti ventilata in questi anni, in cui Re Abdullah e Trattato di pace verrebbero spazzati via. Se così fosse, la portata degli sviluppi futuri andrebbe ben oltre il Piano descritto da Trump.

Il ruolo dell’Unione europea
Esiste ancora, in questo frangente, un ruolo per l’Europa? Le prime reazioni dell’Alto Rappresentante Josep Borrell sono state di assoluta coerenza con i propositi europei della prima ora, impegno per una “soluzione negoziata” che tenga conto delle “legittime aspirazioni delle due parti”, richiamo alla formula dei due Stati e al rispetto delle “pertinenti risoluzioni dell’Onu“. Con analoghe parole si è espressa tempestivamente l’Italia, sottolineando altresì la necessità di coordinamento comunitario e la volontà di sostenere il processo.

In altri termini, nulla che contraddica il Piano nelle sue grandi linee, o sia suscettibile di comprometterne l’attuazione, ma senza venir meno ai principi. Dovrebbe ora seguire da parte europea un’azione diplomatica assidua presso tutte le parti in causa, se non una partecipazione attiva ai seguiti negoziali: l’Europa non può permettersi di chiamarsi fuori da questo scacchiere, al prezzo di subire l’impatto di un deragliamento che si scaricherebbe in primis sugli Europei stessi, o di lasciare ad altri protagonisti – Russia, ove non a caso Netanyahu incontrerà presto Putin, ma anche Turchia – ulteriori spazi di influenza e sovra-esposizione negli assetti del Mediterraneo.