Tensioni Usa-Iran: la mediazione deve essere europea
La regione del Golfo Persico rientra raramente nel dibattito politico italiano. Un po’ perché in parallelo con l’avvitarsi del dibattito sulle questioni di politica interna e con il ripiegamento sul quotidiano, è assente in generale dal dibattito l’ampio respiro e lo sguardo lungo con il quale guardare al di là dei nostri confini, con il quale pensare a se stessi in relazione al mondo. Quando lo si fa, è solo per crisi molto vicine a noi – come la Libia – o perché le questioni internazionali irrompono letteralmente nel nostro quotidiano, come nel caso dell’ondata di tensione che lo scorso gennaio ha fatto seguito all’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, con potenziali ripercussioni sul nostro contingente operativo in Iraq.
Eppure, anche una regione apparentemente lontana come il Golfo riveste un’importanza di primo piano per il nostro interesse nazionale, e meriterebbe dunque un’adeguata riflessione strategica. Come molti italiani hanno ormai imparato in questi mesi di tensioni, lo stretto di Hormuz, porta d’accesso al Golfo Persico, è il principale choke-point mondiale, crocevia strategico per traffici commerciali ed energia.
A mettere a repentaglio la stabilità in questa regione è il crescente confronto tra Stati Uniti e Iran, originatosi dalla decisione Usa di abbandonare l’accordo sul nucleare e reimporre draconiane sanzioni sulla Repubblica islamica (di fatto costringendo anche gli alleati europei a interrompere ogni rapporto economico e commerciale con Teheran). Due anni dopo l’uscita degli Usa dal Jcpoa, la politica di “massima pressione” si è trasformata in una pericolosa brinkmanship, che ha portato a sfiorare più volte lo scontro aperto. L’Europa ha assistito impotente, malgrado i tentativi del presidente francese Emmanuel Macron di mediare tra l’Iran e Trump.
Un Medio oriente oggi ancora più instabile
Le palpitazioni che originano nel Golfo hanno dunque reso il Medio oriente una regione oggi più instabile: un quadro di sicurezza in progressivo sgretolamento rischia di lasciare spazio a un ritorno di movimenti terroristici come lo Stato Islamico in Iraq ma non solo, di fatto vanificando gli sforzi compiuti in questi anni dalla Coalizione internazionale, nella quale gli stessi paesi europei hanno riversato impegno e risorse. È inoltre un Medio Oriente pericolosamente esposto al rischio di una nuova proliferazione nucleare, innescato dal graduale ma inesorabile sgretolarsi dell’unico significativo accordo di non proliferazione raggiunto nell’ultimo decennio, il Joint Comprehensive Plan of Action.
È d’obbligo sottolineare che è stata l’Europa in questi anni a pagare il prezzo della destabilizzazione mediorientale, o meglio è in Europa che si registra la più ampia distanza tra il prezzo pagato, la minaccia a cui si è esposti, e l’incisività degli strumenti a disposizione per fronteggiarla. Se la Commissione insediatasi lo scorso dicembre ha l’ambizione di essere una Commissione “geopolitica”, qualunque cosa ciò significhi, è evidente che i primi due banchi di prova sui quali testare tale vocazione – la Libia e l’Iran – vedono Bruxelles arrancare in una partita condotta da altri giocatori. L’ex ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel, con un’immagine efficace, ha dipinto l’Europa come “un vegetariano in un mondo di carnivori”.
Nonostante la graduale presa di coscienza circa la propria crescente irrilevanza sul palcoscenico geopolitico internazionale, permane la tendenza a far “passare la nottata”. Si pensa che basti stringere bene le cinture di sicurezza e aggrapparsi con forza ai sostegni per passare indenni attraverso la tempesta che origina oltre Atlantico, fatta di colpi inferti al multilateralismo in nome della ricerca di successi unilaterali. Si aspetta, ci si tiene forte e si spera che dopo l’appuntamento elettorale di novembre sarà diverso, o che al massimo si debba attendere ancora altri quattro anni, al termine dei quali la presidenza Trump esaurirà il proprio limite legale. Si rifiuta di prendere coscienza che dal fenomeno Trump difficilmente si potrà tornare indietro, che esso non è un fenomeno temporaneo – un evento inatteso esaurito il quale si tornerà a una supposta normalità – ma che esso è al contrario sintomatico di un cambiamento ben più profondo all’interno della società e della politica americana, e che l’occidente e l’alleanza transatlantica come li abbiamo conosciuti in questi ultimi settant’anni molto probabilmente non esistono più. Stiamo andando verso nuove configurazioni di potenza nel sistema politico internazionale, che vedono come protagonisti Stati Uniti, Russia e Cina, e dalle quali l’Europa rischia di rimanere esclusa.
Che ruolo per un’Europa in cerca d’autore
Non è realistico pensare che l’Europa si doti sul breve periodo di quell’autonomia strategica che pure le è necessaria per giocare con il ruolo che le spetta sull’arena delle grandi potenze. È però ragionevole e urgente stimolare un comportamento più attivo – anziché reattivo – rispetto alle dinamiche in atto ai propri confini, anche quelli che appaiono “a distanza di sicurezza”. Se crolla l’accordo sul nucleare, se scoppia un conflitto tra Stati Uniti e Iran, se l’Iraq risprofonda nel baratro del terrorismo, non vi è distanza di sicurezza che tenga. Ecco perché occorre guardare alla regione del Golfo in chiave strategica, definendo i propri obiettivi e approntando i propri strumenti, pur nella coscienza della loro – per ora – limitatezza.
Ciò significa lavorare sul proprio ruolo di mediatore e garante della de-escalation, farsi protagonista di un’iniziativa per il dialogo regionale sulle questioni di sicurezza che assegni a tutti i paesi del Golfo un ruolo chiave di interlocutore. Significa lavorare per la creazione di una nuova architettura di sicurezza regionale che funzioni come vero e proprio forum per la discussione e la risoluzione delle controversie, e per la costruzione della fiducia reciproca. Significa assumersi la responsabilità di proporre un progetto diverso da quello avanzato dagli Stati Uniti, basato oggi sulla saldatura di un’alleanza Golfo-Israele in funzione di contenimento dell’Iran. Significa avviare con tutti i Paesi della regione un dialogo franco, nella consapevolezza che le sole lenti degli interessi economici con le quali tradizionalmente si guarda alla sponda araba del Golfo non sono più sufficienti. Un esempio su tutti: quando potremo avviare un dibattito franco tra paesi europei circa il ruolo degli Emirati nella guerra in Libia, a sostegno del generale Haftar, e dunque contro i nostri stessi interessi?
C’è un ruolo per l’Italia in tutto questo?
In linea teorica, sì. Il nostro Paese gode di buoni rapporti con entrambe le sponde del Golfo, ed è dunque ben posizionato per supportare la diplomazia intra-Golfo. In particolare, per quanto riguarda l’Iran, Roma gode storicamente di fiducia da parte di Teheran, pur non essendo parte del gruppo degli E3 (Francia, Germania, Regno Unito) che sono stati impegnati in questi anni nel dialogo sul nucleare. Proprio il non essere parte del gruppo di potenze europee guardato con sempre maggiore diffidenza da parte dell’Iran per via dell’incapacità di proteggere il Jcpoa, ci riserva un ruolo di pontiere naturale per tenere aperto il canale di dialogo tra l’Iran e l’Europa, nel tentativo in extremis di salvare l’accordo sul nucleare.
Vi sono dunque spiragli per giocare un ruolo più attivo e all’altezza dei nostri interessi, facendoci propulsori di un’iniziativa europea per la de-escalation e il dialogo regionale. Occorre però prima di tutto sviluppare una consapevolezza e una visione: in definitiva, tornare a guardare al di fuori dei nostri confini con sguardo lungo e approccio strategico.
Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana, realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le opinioni espresse dall’autore/autori sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dell’ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.