La poco probabile origine militare dell’epidemia di coronavirus
Alcuni articoli della stampa internazionale tra cui uno del Washington Post ed un altro del Washington Times evocano l’ipotesi secondo cui l’epidemia di coronavirus possa aver avuto origine accidentale nel quadro di una ricerca militare da parte di un laboratorio biologico stanziato proprio nella città di Wuhan. Il Washington Post, riporta le conclusioni di autorevoli scienziati che escludono tale ipotesi, mentre il filo-trumpiano Washington Times rimane più possibilista. Questa linea viene seguita anche dal britannico Daily Mail.
Lo scetticismo del Washington Post è corroborato da un altro fattore che nessuno dei giornali citati menziona ma che, grazie alla diplomazia internazionale, rende l’ipotesi ventilata assai remota. Le armi biologiche appartengono infatti alla categoria delle armi di distruzioni di massa su cui da decenni è focalizzata l’attenzione della comunità internazionale con lo scopo di proibirne l’uso, il possesso e la diffusione. Per quanto riguarda le armi biologiche, è in vigore dal 1975 un Trattato ad hoc, la Convenzione sulla Proibizione delle Armi Biologiche (Bwc), negoziata nel quadro della Conferenza del Disarmo di Ginevra, che impone alle parti di non sviluppare, immagazzinare o acquisire agenti biologici se non per scopi pacifici. Oltre alla proibizione, la Convenzione prevede la distruzione di tali armi e dei vettori capaci di trasportarle. La Cina, come anche la stragrande maggioranza degli altri Stati del mondo, ha firmato e ratificato tale convenzione.
Un Trattato debole…
Occorre riconoscere tuttavia che la Convenzione del 1975 non è un accordo a tenuta stagna. Vi sono anzitutto 15 Paesi che non vi hanno ancora aderito. Ci si domanda cosa aspettino Stati come Egitto, Israele, Siria e Tanzania a rinunciare a questa odiosa arma del terrore. L’Europa e l’Italia si trovano in prima linea per promuovere l’universalizzazione della Bwc.
Vi è inoltre il problema del doppio uso, pacifico e offensivo, delle sostanze biologiche che rende difficile distinguere gli usi leciti e quelli illeciti di tali sostanze. Di fronte all’enorme balzo in avanti della tecnologia in campo biologico è praticamente impossibile monitorarne tutte le applicazioni.
Questo ultimo compito è reso più difficile dal fatto che la Convenzione appartiene ai cosiddetti Trattati “poveri”, quelli che non dispongono, per la loro applicazione, di un’organizzazione internazionale permanente come è invece il caso per le armi chimiche (Opcw dell’Aia) e la proibizione degli esperimenti nucleari (Ctbto di Vienna).
Ciò priva la convenzione di una capacità di verifica ed ispezione di cui si possono invece avvalere gli altri trattati che proibiscono le armi nucleari e quelle chimiche. Un tentativo di dotare la Bwc di un sistema di verifiche fu fatto naufragare nel 2002 da John Bolton, l’ineffabile nemico di tutti gli accordi di disarmo, già ambasciatore statunitense all’Onu poi divenuto consigliere per la Sicurezza nazionale nell’Amministrazione Trump e di recente licenziato dallo stesso presidente perché considerato un guerrafondaio.
… ma un impegno solido
Il monitoraggio della convenzione avviene oggi principalmente attraverso le quinquennali Conferenze, che passano in rassegna l’applicazione dell’accordo, e periodiche riunioni di esperti. Ad esse si affianca da alcuni anni una piccola unità applicativa di supporto il cui personale però si conta con le dita di una sola mano. Nell’insieme una struttura leggera, che nulla potrebbe fare nel caso malaugurato di un effettivo impiego delle armi biologiche i cui effetti sarebbero catastrofici a livello planetario.
Per sopperire alle lacune del sistema in atto, alcuni Paesi occidentali stabilirono nel 1985 l’Australia Group, impegnato ad impedire che le loro esportazioni possano contribuire allo sviluppo di armi chimiche e biologiche. Inoltre, una risoluzione vincolante del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (la 1540) è divenuta uno strumento chiave per impedire che armi di distruzione di massa, ivi comprese quelle biologiche, possano cadere in mano a gruppi terroristici.
Nonostante le carenze citate, l’architettura internazionale costruita per proteggersi dalle armi biologiche rimane sufficientemente solida. Nessuno Stato si è sinora ritirato dalla Convenzione né si può parlare di aperte violazioni. Il caso più saliente fu quello dell’Iraq di Saddam Hussein, che prima della prima guerra del Golfo del 1990 si dotò clandestinamente di armi biologiche. All’epoca Baghdad aveva firmato ma non ratificato la convenzione biologica (lo fece successivamente). Saddam non osò però utilizzarle, temendo le inevitabili pesanti ritorsioni. Nella seconda guerra del Golfo di tali armi, come si sa, non si trovò traccia.
Armi di terrore, non strategiche
La generale propensione ad accettare la proibizione delle armi biologiche deriva, come per le armi chimiche, oltre che da motivi umanitari, anche dalla loro scarsa valenza sul piano militare. Potevano avere un valore nelle guerre in trincea come durante il primo conflitto mondiale ma molto meno oggi. Possono uccidere indiscriminatamente migliaia e migliaia di esseri viventi ma non servono per distruggere obiettivi militari o per vincere una guerra. Non sono armi strategiche ma armi di terrore.
Sinora Pechino è stata assai scrupolosa nel rispettare gli accordi sottoscritti nel campo del disarmo assumendosi a volte impegni aggiuntivi quale quello unilaterale di non usare per prima l’arma nucleare (no first use) che nessuno degli altri Stati nucleari riconosciuti ai sensi del Trattato di non proliferazione nucleare ha sottoscritto.
Visti questi precedenti, è difficile pensare che la Cina abbia voluto mettere a rischio la propria reputazione internazionale, violando una Convenzione che proibisce un tipo di arma stigmatizzato e rigettato da quasi tutti i Paesi appartenenti al mondo civile… inclusa la Corea del Nord.