Riconoscere il rischio e agire di conseguenza
Il rischio per i militari italiani impiegati all’estero, dalla Libia all’Iraq, è fortemente aumentato negli ultimi mesi, ma le attuali operazioni sono congegnate per un livello di minaccia più basso e necessitano quindi di una revisione complessiva. Al momento l’Italia dispiega all’estero circa 7.340 militari, suddivisi in 34 missioni in 25 Paesi, principalmente in Medio Oriente & Asia Centrale (3.242), Europa & Mar Mediterraneo (2.237), Africa (992).
I principali contingenti terrestri sono impiegati in Libano al comando della missione Onu Unifil II (1.216 unità), in Iraq e Kuwait come parte della Coalizione Globale guidata dagli Stati Uniti contro il sedicente Stato islamico (1.100), in Afghanistan nel quadro della missione Nato Resolute Support (800), in Kosovo dove gli italiani comandano la Kfor alleata (538), e in Libia con la missione bilaterale Miasit a sostegno del governo di Tripoli (400). Altri impegni importanti sono in Niger di nuovo con un impegno bilaterale (290 unità) e in Somalia al comando della missione Ue (123).
Missioni lunghe, coperta corta
Un panorama variegato che presenta elementi di continuità nell’impegno e di cambiamento nel livello di rischio. I primi stanno nell’effetto legacy di missioni di stabilizzazione in corso ininterrottamente da molti anni che non hanno una prospettiva di completamento o trasformazione nel breve periodo, come nel caso di Kosovo, Libano o Afghanistan.
In parallelo a questo impegno pluridecennale, negli ultimi anni sono aumentate per numero e dimensione le missioni di Defence Capacity Building, e in generale le attività di partenariato, con le Forze armate e di sicurezza in Paesi africani, in primis Libia, Niger e Somalia, ma anche Gibuti, Egitto e Mali. Anche tali operazioni hanno una prospettiva di medio-lungo periodo, ed in alcuni casi, come quello libico, sono in corso già da diversi anni.
L’impegno nelle missioni internazionali è quindi una costante della politica estera e di difesa dell’Italia, indipendentemente dall’alternarsi delle coalizioni di governo, perché, pure in assenza di una ‘Grand strategy’, sono considerate di fatto uno strumento importante per perseguire gli interessi nazionali. Sia quelli direttamente in gioco in teatro, come nel caso di Libia, Niger e Balcani, sia quelli più generali legati al sistema di alleanze e al posizionamento italiano nelle organizzazioni internazionali e rispetto ai partner di riferimento – vedasi Iraq, Afghanistan e Libano.
Un così prolungato utilizzo dello strumento militare, che con la rilevante eccezione dell’Iraq non ha visto soluzione di continuità, ha imposto requisiti e ritmi impegnativi quanto a capacità di force generation, logistica e manutenzione degli equipaggiamenti.
L’escalation dei conflitti in corso…
Se l’impegno è rimasto costante, il rischio è spesso aumentato. In Iraq, Afghanistan e Libia il livello di intensità del conflitto ha visto forti escalation nel corso degli anni, che hanno messo a dura prova la protezione dei militari italiani in termini di disponibilità o meno di mezzi – dai carri armati agli elicotteri d’attacco – del loro numero, prontezza operativa, munizionamento, nonché delle regole di ingaggio e in particolare dei caveat all’impiego della forza.
Inoltre, mentre in Afghanistan e Iraq il contingente italiano è inserito in una missione guidata dagli Stati Uniti, con il relativo dispiegamento di una serie di assetti statunitensi anche a protezione degli alleati, nei casi libico, libanese, nigerino e somalo le operazioni si svolgono senza l’ombrello protettivo americano. L’assenza di Washington, sempre più evidente, pone una serie di necessità e sfide da affrontare, dal trasporto strategico alla protezione delle basi, dai sistemi di Intelligence Surveillance Reconnaissance (ISR) alla difesa antiaerea e anti-missile.
…e la necessità politica di riconoscerla
Visto il rischio alto e in aumento, occorre in Italia un franco dibattito pubblico per fare chiarezza rispetto alla retorica delle ‘missioni di pace’, che rischia di portare a sottostimare la gravità delle minacce e a non adottare adeguate misure di protezione.
Certamente per l’Italia la componente militare è sempre parte di un approccio politico più ampio e a vari livelli. Le forze armate, e in particolare l’Esercito, si sono distinte per la capacità di impostare rapporti con la popolazione locale, le autorità formali e informali, gli interlocutori nel contesto regionale, tali da contribuire alla stabilizzazione dell’area. L’efficacia nel defence capacity building all’italiana, l’affiancamento di attività di ricostruzione economica e la tendenzialmente buona cooperazione civile-militare hanno giovato in tal senso, così come un profilo internazionale dell’Italia sempre aperto al dialogo con tutte le parti in campo.
Tuttavia, la componente militare mantiene sempre una sua specificità e rilevanza: quella di ricorrere all’uso della forza per difendere, imporre o dissuadere determinati comportamenti sul terreno. In quanto tali, i militari italiani sono parte del conflitto in loco, a prescindere dalla latenza o intensità di quest’ultimo, e quindi bersaglio diretto o indiretto degli avversari di oggi e di domani. Riconoscere che le missioni all’estero hanno sì un obiettivo di pacificazione e stabilizzazione, ma che lo perseguono con l’uso della forza armata in un contesto rischioso, è la condizione politica per impostare efficacemente tutti gli aspetti della missione, inclusa la protezione delle forze in teatro. In Libia, Iraq, Afghanistan, Somalia, Niger o Mali, la pace è l’obiettivo da raggiungere, ma non certo la situazione attuale.
Solo nel 2019 l’attacco in Iraq che ha gravemente ferito 5 militari italiani, l’autobomba in Somalia che ha colpito un convoglio dell’Esercito e l’abbattimento in Libia di un drone dell’Aeronautica, sono tutti gravi segnali d’allarme. Se poi si considera che negli ultimi dodici mesi le strutture dove operano i contingenti italiani sono state bersaglio di bombardamenti aerei o missilistici sia in Libia, da parte delle forze del generale della Cirenaica Khalifa Haftar, sia in Iraq da parte iraniana, è doveroso parlare oggi di missioni di stabilizzazione in teatri di guerra.
Iraq e Libia nell’occhio del ciclone
In Iraq sono possibili ulteriori attacchi alle basi, ai convogli e al personale occidentale, direttamente o indirettamente manovrati dall’Iran, e potrebbero avere come bersaglio anche i militari italiani. Infatti, per quanto questi ultimi abbiano costruito buoni rapporti con gli attori locali e regionali, in uno scenario di confronto e scelta di campo – o con Washington o con Teheran – chi è nella coalizione statunitense ne condivide i rischi – anche se non se ne condividono in alcuni casi le azioni. Inoltre, la missione della coalizione internazionale è impostata per sostenere le forze irachene nel contrasto allo Stato islamico, ma non per proteggersi dagli attacchi di una potenza regionale come l’Iran, e presenta quindi una serie di vulnerabilità.
In Libia, dal 2011 decine di milizie locali possono accedere ad armamenti in grado di colpire, in varia misura, i contingenti stranieri. Tra le tecniche impiegabili vi sono attentati, agguati, ordigni esplosivi improvvisati (Ied), fuoco di mortaio, lancio di razzi, e uso di droni per scopi di intelligence e non solo; basti pensare alla minaccia chimica, biologica e radiologica potenzialmente veicolata tramite droni duali anche di piccole dimensioni.
In aggiunta, con l’escalation del conflitto libico e la partecipazione più diretta di Russia e Turchia oltre che di Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar, il livello degli scontri e degli assetti militari impiegati è salito repentinamente. Nonostante la conferenza di Berlino, nel quadro attuale di escalation e capovolgimenti di fronte improvvisi, come quello di Sirte a favore di Haftar, nessuno scenario ad alta intensità è escludibile a priori né a Misurata né a Tripoli.
A partire da Libia e Iraq occorre quindi rivedere mandato, regole di ingaggio ed equipaggiamenti a disposizione dei contingenti italiani, per metterli in grado di svolgere la loro missione con il massimo livello di protezione realisticamente raggiungibile in un teatro di guerra.