L’Italia e le crisi nel Levante: lo scarto tra ambizioni e realtà
Il Medio oriente in senso stretto non è mai stato un terreno facile per l’Italia. Nei confronti di Siria, Libano, Israele, Palestina e Giordania, Roma ha nutrito speranze e fatto proclami di giocare in prima linea mentre la realtà si è spesso rivelata ben diversa. Forse per eccesso di ambizione e con la volontà di essere annoverati tra i Paesi che contano in quella regione in ambito transatlantico ed europeo, l’Italia ha tradizionalmente guardato al Levante come a un’area determinante per la propria politica estera. In quest’ottica, uno dei fiori all’occhiello della nostra diplomazia e dell’azione italiana nei teatri di crisi è stata e tuttora è la partecipazione italiana alla missione delle Nazioni Unite Unifil, dove il contingente italiano è il più nutrito di tutte le missioni di pace a cui partecipa il nostro Paese. Se ciò poteva avere una giustificazione ere politiche fa quando gli schieramenti e le influenze regionali e internazionali erano netti, le crisi inter-statali e gli attori coinvolti in grado di essere influenzati (o meno) attraverso la classica diplomazia, oggi tutto ciò non ha più appiglio e rischia di esporci a critiche di superficialità e in ultima istanza irrilevanza. A partire dal Libano che sta provando a cambiare volto.
Libano: una nuova crisi aperta in Medio oriente?
Un tempo considerato la ‘Svizzera del Medio oriente’, oggi il Libano è sotto pressione a causa di un debito esplosivo e di deficit strutturali andati accumulandosi nel corso dei decenni. La crisi non è solo esemplificata dalla mancanza di riserve monetarie nella Banca centrale o dall’incapacità o riluttanza ad adempiere agli impegni finanziari contratti con le istituzioni finanziarie globali ma occorre considerare anche le serie ripercussioni socio-economiche di questa situazione. Secondo stime governative, il 35% della popolazione libanese vive sotto la soglia di povertà e la classe media è stata fortemente indebolita. Il settore agricolo e quello delle piccole-medie industrie sono stati devastati con significative ripercussioni sugli equilibri demografici del Paese e l’estremo sfruttamento di alcune aree (la costa) e l’impoverimento e il de-popolamento di altre. La crisi economica è stata uno dei fattori che hanno portato allo scoppio delle proteste popolari, a partire da metà ottobre 2019, alla caduta del governo e alla formazione di un nuovo esecutivo che, nelle intenzioni più che nei fatti, dovrebbe essere d’impostazione tecnica. Tuttavia, il peso della frammentazione della politica settaria e identitaria nel Paese è ancora evidente nella composizione del nuovo governo e rappresenta il primario fattore d’instabilità strutturale del Libano.
Di fronte a questa situazione si sono moltiplicate le dichiarazioni e le promesse di sostegno da parte della comunità internazionale in cambio di riforme strutturali. Essa, inclusa l’Italia, da tempo guarda al Libano come a un baluardo di fragile stabilità in un Medio oriente sempre più privo di strutture statuali e non in grado di mantenere ordine e in balìa di conflitti stratificati. Ma il Libano del 1978 quando venne lanciata l’operazione Unifil come forza di interposizione nel Sud del Paese o di trent’anni fa (gli accordi di Ta’if risalgono al 1990) non esiste più. O meglio è in corso una lotta tra il ‘vecchio’ e il ‘nuovo’, tra chi vorrebbe ancorare il Paese a un’instabilità e a una corruzione croniche e chi vorrebbe dargli un nuovo volto e ruolo, anche in politica estera.
Ambizioni di equidistanza e inclusività: la crisi siriana vista da Beirut e… da Roma
Con la regione mediorientale in disperato bisogno di ordine, di mediazione e riconciliazione, la crisi del Libano non è di buon auspicio. Per sua natura in bilico tra pressioni e interessi esterni contrapposti, il Paese – a detta di una fonte diplomatica libanese di alto livello – auspica di tornare presto a giocare un ruolo proattivo in politica estesa e ad essere un partner equilibrato ed ‘equidistante’ tra i due campi contrapposti di Iran vs. alcune monarchie del Golfo quale Arabia Saudita ed Emirati. È proprio a questi Paesi arabi che il Libano intende guardare in maniera preferenziale, anche nel quadro della Lega Araba, al fine di ristabilire il proprio ruolo di honest broker in politica estera. Il terreno primario di questo bilanciamento e auspicato rinnovato attivismo è la volontà di promuovere la riconciliazione in Siria, a quasi nove anni dall’inizio del conflitto, in primis tra gli attori esterni, regionali e internazionali, nel momento in cui il Paese è ritornato quasi completamente nella mani di Assad. Mentre alcuni Paesi arabi hanno fatto passi in avanti verso il regime di Damasco, la posizione araba ufficiale è tuttora di cautela nei confronti della normalizzazione di Assad.
Lo stesso trend accomuna il mondo arabo e l’Europa dove alcuni Paesi, tra cui l’Italia, negli ultimi due anni hanno teso le mani a Damasco nonostante la posizione ufficiale dell’Unione europea sia quella di non proseguire con la normalizzazione dei rapporti con il regime siriano in assenza di una reale riconciliazione frutto di un processo politico. Non più tardi del dicembre scorso, il ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale Luigi Di Maio, dopo gli inviti a fare “un piccolissimo passettino in avanti” verso Assad, ha parlato apertamente della necessità per il nostro Paese e per l’Unione europea di dialogare con Damasco. Già un anno fa, a gennaio 2019, il predecessore di Di Maio, Enzo Moavero Milanesi, aveva parlato di valutazioni in corso circa la riapertura dell’ambasciata italiana a Damasco, riapertura ancora pendente.
Quale ruolo la diplomazia italiana veda per sé nel processo di normalizzazione con Damasco non è chiaro, al di là di interessi concreti e leciti nel campo della ricostruzione, e sorge spontaneo il sospetto che la nostra diplomazia stia coltivando pure ambizioni senza una piena consapevolezza delle implicazioni di una tale mossa e della mutata realtà mediorientale, a prescindere del merito dell’azione in quanto tale.
Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana, realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le opinioni espresse dall’autore/autori sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dell’ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.