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Osservatorio IAI/ISPI

Libia: se all’Italia (e all’Europa) manca una visione di insieme

16 Feb 2020 - Giampiero Massolo - Giampiero Massolo

In Libia la Conferenza di Berlino non ha dato i frutti sperati. Non mancavano, del resto, indizi di un mutamento delle regole del gioco, tali da suggerire un cambio di rotta: dal via libera del Parlamento turco alla missione militare a sostegno del governo di Tripoli (Gan), all’accordo sulla delimitazione dei confini marittimi fra lo stesso governo di accordo nazionale e la Turchia; dal forzato rinvio della missione europea fortemente promossa da Italia e Germania, causato dalla scelta di Haftar di proseguire la sua offensiva, all’ingresso di Putin fra i primattori della crisi col bilaterale russo-turco di Istanbul l’8 gennaio.

Non che a Berlino fossero mancati progressi. L’avere indotto i player più coinvolti nel conflitto a sottoscrivere impegni precisi era stato un risultato, pur raggiunto al prezzo di adattarsi a una gemmazione libica dello schema siriano: un patto fra due potenze, Turchia e Russia, mosse da confliggenti ambizioni strategiche sul Mediterraneo ma dalla convenienza reciproca a contemperarle; l’America in ritirata, concentrata sul big match geostrategico con Pechino; un’Europa divisa, inefficace, condannatasi all’irrilevanza per le rivalità fra i suoi membri che hanno beneficiato spoiler esterni alla comunità euroatlantica, disinvolti e lontani dai valori occidentali.

Eppure, sia il cessate-il-fuoco fra il Gan e l’Esercito Nazionale di Haftar, che l’avvio dei lavori su un progetto di risoluzione del CdS per coinvolgere gli stakeholder decisivi sembravano schiudere una dinamica nuova, presupposto all’avvio di un vero processo politico. Ma gli impegni sono stati rinnegati, i principi di Berlino violati, mentre l’Onu ha dato mostra di forzata inazione e la situazione sul campo ha continuato a deteriorarsi. Con l’aggravante della sospensione delle esportazioni di greggio.

L’avere vissuto la Libia come banco di prova della capacità di tutelare i nostri interessi nazionali ha esasperato i nostri limiti più che incoraggiarci a una visione strategica. Messi alla prova prima, nella rinegoziazione con Gheddafi del complesso retaggio post-coloniale, poi, nella hard choice tra interesse nazionale e lealtà alleata nel conflitto del 2011, infine, nella gestione di una transizione degenerata in guerra civile, abbiamo letto la Libia attraverso il prisma – doveroso ma limitativo – dei flussi migratori, con le correlate scelte emergenziali di frenarli e di prezzi troppo cari per l’ambizione di avere un ruolo incisivo nella sua stabilizzazione.

Si è poi sfumato come la sfida per i nostri interessi energetici sia anche nel Mediterraneo orientale, dove le prospezioni petrolifere dell’Eni ci candidano a un ruolo primario e dove, in un’ottica di diversificazione delle fonti, è essenziale interloquire con tutti gli attori del progetto Eastmed. Si è perfino smorzata, almeno nel dibattito pubblico, la luce dei riflettori sul rischio, pur concreto, di un nuovo surge jihadista nel Sud desertico.

Tutto questo, col risultato di uno sbilanciamento a favore dell’Ovest che ha contribuito ad appannare la nostra percezione di quel che la Libia è diventata: luogo d’elezione per lo scontro, interno alla galassia sunnita, fra due modelli d’Islam, l’uno politico (Qatar, Turchia), l’altro laicizzante (Egitto, Emirati Arabi); laboratorio per l’attivismo degli attori non statali (tribù, milizie, Città-Stato); terreno fertile per la regionalizzazione delle sigle jihadiste.

Di tali dinamiche la pressione migratoria sulle sponde settentrionali del Mediterraneo è sottoprodotto abbastanza collaterale, al cui contenimento non tutti saranno mai interessati egualmente. La posta in gioco riguarda l’insieme degli equilibri geopolitici e dei rapporti di forza in Africa e nella regione mediorientale, che dipenderanno dall’assetto istituzionale della Libia futura, e comprende interessi non sempre confessabili quali la ripartizione dei proventi energetici, la lucrosa gestione delle partecipazioni finanziarie e il controllo degli innumerevoli traffici illeciti (non solo di esseri umani) che proliferano nelle vaste “terre di nessuno” libiche.

È per questi motivi che, sin dallo scoppio della guerra civile, la crisi si è dipanata su tre livelli: livello intralibico, i cui protagonisti sono tutti gli attori che esercitano un controllo effettivo sul territorio; livello dei player regionali arabi ed islamici; livello delle politiche di potenza dei nostri partner più direttamente interessati a disegnare nuovi equilibri nello scacchiere. Azzardato, dunque, è giocare per vincere da soli una partita su terreni a noi non congeniali, per di più nell’illusione di tamponare l’emergenza migratoria. Improvvido, poi, l’investimento eccessivo nelle Nazioni Unite senza sorreggerne l’azione e senza riservar loro l’unico ruolo che possono svolgere efficacemente, quello di garante di intese costruite fuori dello schema multilaterale.

Le chiavi della crisi libica sono sempre state fuori dalla Libia, tra Stati: democrazie “guidate” come Turchia e Russia, libere di condurre senza scrupoli iniziative militari e coperte, se ne sono rese conto con scaltrezza e ne hanno approfittato concretamente, rispetto a liberaldemocrazie occidentali come Italia e Francia, impegnate in un’inconcludente competizione a perdere che le ha portate a essere spiazzate dagli eventi. Nondimeno, il sostanziale fallimento dell’esercizio berlinese ci obbliga ad abbandonare ogni alibi e la comfort zone dei formati variamente inclusivi. È innegabile che la logica di potenza di Ankara e Mosca ha riempito il vuoto lasciato dagli occidentali; ma ciò non toglie che stia ancora a noi incidere sugli effettivi margini di azione loro e degli altri guastatori regionali. Ci manca la loro spregiudicatezza e la possibilità d’inviare boots on the ground, se non sotto forma di presenza militare internazionale di monitoring, per la quale, oggi, non vi sono le condizioni. Ma sussistono ancora margini per rilanciare la nostra azione.

È probabilmente tardi per un vero “concerto delle Potenze”, che livelli la capacità di condizionamento sugli eventi di USA, Europa, Russia, Turchia e dei tre principali player di area (non fosse altro perché Mosca e Ankara si sono spinte molto avanti). Un’architettura siffatta avrebbe dovuto edificarsi, possibilmente a trazione italo-francese, prima dell’offensiva su Tripoli di Haftar.

Non è però tardi per un “meccanismo” di collaborazione tra Stati, teso a imbrigliare la proiezione di potenza dei due attori che determineranno il futuro della Libia. Va ribaltato il piano inclinato, costruendo i presupposti affinché rispettare l’embargo sulle armi divenga più conveniente che violarlo; a meno di non voler condannare il Paese a un permanente equilibrio precario – foriero di una progressiva bipartizione fra Tripolitania e Cirenaica con il Sud trasformato in pericoloso buco nero – e l’Italia allo scenario peggiore, poiché l’integrità territoriale libica resta un nostro obiettivo strategico fondamentale.

Difficile, tuttavia, configurare quei presupposti finché lo scontro fra proxies rimarrà lo strumento più profittevole per perseguire interessi, difendere linee rosse. Difficile, ma non impossibile, se un meccanismo credibile inducesse gli attori coinvolti a ricercare attorno a un tavolo un dividendo soddisfacente sul piano securitario, politico, economico ed energetico. Solo allora, potrà essere avviato un nuovo dialogo intralibico che restituisca a quel popolo relativa padronanza del proprio futuro; prima di allora, i principi di ownership e di inclusività sono destinati a rimanere semplici declamazioni. Paradossalmente, allora, se letto come ultimo avviso a non rimandare l’esercizio della responsabilità, l’insuccesso di Berlino può aiutare a invertire la rotta. Un esercizio che chiama in causa anzitutto l’Italia, che più di altri può trarne beneficio.

Assai meno attrezzati della Francia nel decision making interno, abbiamo più di Parigi tutto l’interesse a emanciparci dalla logica della competizione bilaterale strisciante. A noi più che ad altri nell’Europa post Brexit conviene cointeressare Washington incoraggiandola a un ruolo più profilato, richiamando la comune preoccupazione per la minaccia terroristica e per l’espansionismo russo-turco. A noi più che ai partner del progetto Eastmed è utile un’intesa strategica con Ankara: per ragioni di influenza dettate dai nostri interessi in Tripolitania, ma anche per motivi di sicurezza energetica e per l’opportunità di svolgere un ruolo proattivo nel ridisegnarsi dei rapporti di forza nel nostro quadrante. Le condizioni per questa partita a tutto campo ci sarebbero. A impedirci di giocarla è un deficit di fondo, che non attiene né all’autorevolezza, che comunque conserviamo in Nord Africa e nel mondo arabo, né alla taglia della nostra economia, né alla conoscenza minuziosa del contesto, riconosciutaci unanimemente.

Il deficit riguarda la nostra finora poca attitudine ad elaborare opzioni di policy coerenti e di perseguirle con determinazione, chiarendo gli obiettivi strategici, mettendo a sistema gli strumenti militari, diplomatici, di intelligence. Ha a che fare col medesimo autolesionismo che ci ha ricacciati nella trappola migratoria, facendoci smarrire la visione d’insieme del problema libico. C’è da sperare che il fallimento di Berlino ci spinga a superare i nostri limiti: sarebbe questa la nostra vera prova di raggiunta maturità.

Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana, realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le opinioni espresse dall’autore/autori sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dell’ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.