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1-SILENCING THE GUNS 2020. PARLA TOUADI

L’economia di guerra e il mito dei conflitti tribali

21 Feb 2020 - Francesca Caruso - Francesca Caruso

Jean-Léonard Touadi è un politico, accademico, scrittore e giornalista italiano, originario del Congo-Brazzaville. Ha conversato con AffarInternazionali sulla sicurezza regionale del continente africano, analizzando il traffico delle armi leggere, l’economia di guerra e l’impatto delle operazioni multilaterali.

Questa è la prima intervista del dossier “Silencing the Guns 2020, l’iniziativa che l’Unione africana aveva lanciato nel 2013 con l’obiettivo di silenziare le armi su tutto il continente entro il 2020.

 

 

“Non ci sono statistiche attendibili per capire esattamente quante sono le armi leggere in circolazione in Africa. Una cosa è sicura però: in alcune aree del continente, paradossalmente, sono diventate la cosa più facile da acquistare”. Jean-Léonard Touadi è abbastanza scettico sul successo di “Silencing the Guns 2020”. “Oggi, infatti, è più facile acquistare un’arma piuttosto che una bicicletta o una medicina, ha continuato Touadi. Durante la prima guerra nella regione dei Grandi Laghi, un kalashnikov costava 200, 250 dollari. Oggi sappiamo che nel continente un’arma leggera si può acquistare anche a 20-30 dollari”.

C’è un paradosso, però. Il continente è un focolaio di conflitti ma il volume delle importazioni legali di armi è relativamente molto basso. L’80% delle armi è infatti nelle mani dei civili per un valore di 40 milioni di dollari, mentre quelle che sono nelle mani dei governi non superano gli 11 milioni…
“Questa circolazione informale e criminale deriva anche dalla natura dei conflitti che si sono sviluppati in Africa a partire dagli Anni Novanta. Le guerre africane hanno smesso di essere guerre interstatali e sono diventate guerre intra-statali, che non sono portate avanti dagli eserciti regolari. Anzi, in questi conflitti gli eserciti sono sopraffatti dal sorgere delle milizie. Lo spartiacque si è generato con le guerre in Sierra Leone e in Liberia e tutto ciò che ne è conseguito con il genocidio in Ruanda. Poi dal genocidio ruandese, che si è perpetrato con un’arma bianca, ovvero con il machete, si è passati al Congo con le armi leggere, che hanno fonti di approvvigionamento abbastanza diversificate. La prima fonte è una fonte di prossimità: le lunghe e sanguinosissime guerre in Sudan, Sud-Sudan e Darfur, sono state anche alimentate dalla prossimità con la regione dei Grandi Laghi, dove c’erano molte armi.

Che tipo di guerre sono? Si parla spesso di “guerre tribali”.
Ecco vede, quando rispondiamo a questa domanda sfatiamo anche questa finta definizione delle “guerre tribali”. In realtà queste guerre sono inserite in un contesto assolutamente globale, di natura prettamente economica. Le risorse naturali da sfruttare, i signori della guerra che sfuggono alla sovranità dello Stato, sono riforniti da coloro che sono interessati a portare avanti lo sfruttamento illegale di queste materie prime. Quindi materie prime, armi leggere e milizie fanno parte di quella che possiamo chiamare l’economia di guerra. E l’economia di guerra in quanto tale funziona attraverso meccanismi informali e criminali, quindi non tracciabili.

Jean-Léonard Touadi

Negli ultimi anni, la presenza di attori globali come Russia, Cina e Emirati Arabi Uniti è aumentata moltissimo in tutto il continente. Qual è l’impatto di questa presenza sulla sicurezza regionale?
Per rispondere a questa domanda basta vedere l’esito dell’ultimo incontro Russia-Africa che si è svolto a Sochi. Quando si leggono le dichiarazioni di Sochi non ci sono molti accordi di tipo commerciale o infrastrutturale come con la Cina, ma si tratta prevalentemente di commercio di armi. Mosca sta cercando una sua visibilità in Africa – che aveva già all’epoca della Guerra Fredda ma che, con la fine della Perestroijka, si era un po’ smarrita – attraverso il rifornimento in armi. Ufficialmente ciò avviene poco, ma avviene tantissimo attraverso il reticolato di gruppi più o meno privati o para-pubblici, che sono comunque controllati dal Cremlino per assicurarsi una presenza sempre più significativa nel continente.

Nella Repubblica Centrafricana, la presenza russa sembrerebbe anche mirare alle risorse naturali del Paese ricco di oro e diamanti.
Le risorse naturali purtroppo sono quasi sempre il fine ultimo di queste presenze straniere. Purtroppo in questo c’è una drammatica continuità con il passato: le materie prime sono da sempre state al centro dell’appetito delle potenze extra-africane. Lo si è visto in Angola, durante la lunga guerra civile in cui il rifornimento delle armi era strettamente legato allo sfruttamento del petrolio e dei diamanti. Lo si è visto nelle guerre in Sierra Leone e in Liberia con i diamanti. Quindi c’è una stretta correlazione tra questi conflitti e le risorse naturali. Ed è proprio per questo che non bisogna mai accettare che le guerre africane siano considerate come delle guerre etniche.

Nel Sahara invece sembrerebbe che questo schema non funzioni.
Nel Sahara il circuito è leggermente diverso. Lì la circolazione delle armi sta seguendo una logica diversa dal punto di vista dello schema che abbiamo delineato nell’economia di guerra dove controllo del territorio, sfruttamento delle risorse naturali, e rifornimento di armi funziona perfettamente. Nel Sahel invece la circolazione delle armi è il risultato di due avvenimenti: il primo è la vittoria del governo algerino contro il Fis (il Fronte islamico di salvezza, partito islamista algerino, ndr), che lo ha relegato nel sud del Paese, al confine con il Mali. Il secondo è la caduta di Gheddafi nel 2011, con i combattenti, mercenari e arsenali libici che si sono riversati in quell’area vastissima che parte dalla Mauritania e lambisce il Sudan. Il traffico degli esseri umani, della droga e delle armi è diventato il perno dei guadagni dei gruppi armati di quello che oggi viene chiamato “Sahelistan”, una definizione che fa venire i brividi.

Lei lavora alla Fao. Quanto incide il cambiamento climatico sulla sicurezza regionale?
Penso che stiamo sottovalutando il problema. Quest’anno ci sarà la celebrazione dei sessant’anni dell’indipendenza africana. La maggior parte dei Paesi che celebrano l’anniversario ha subito i danni del cambiamento climatico. Danni che fino a poco fa l’Africa non aveva mai conosciuto. E l’esempio tipico degli scenari che si stanno profilando all’orizzonte è il prosciugamento del lago Ciad, che in 25 anni ha perso qualcosa come il 60/70% della sua portata d’acqua. Ciò ha messo in crisi tutti i Paesi, e quindi tutte le comunità e i popoli, che intorno al lago Ciad traevano gli strumenti per vivere. Questo prosciugamento continua e sta provocando l’espulsione fisica di intere comunità dalle loro zone creando una situazione pericolosissima di conflitti tra pastori abituati alla transumanza – e che, necessariamente, non hanno mai tenuto conto dei confini – e agricoltori. Per non parlare del deserto che avanza e della scarsità delle piogge che sta mettendo in ginocchio intere comunità. Sicuramente ci dobbiamo aspettare che tra qualche anno ci saranno anche i rifugiati climatici. Se poi a questo si aggiunge la proliferazione delle armi, capite bene che siamo di fronte ad una situazione di grandissima instabilità non alle porte dell’Africa ma alle porte dell’Europa.

Paradossalmente il continente è anche la regione con il maggior numero di operazioni multilaterali nel mondo.
Essendo congolese e ricordandomi il più grande fallimento dell’Onu dopo l’indipendenza africana con l’operazione che, nel 1961, ha visto morire il segretario generale Dag Hammarskjold, vedendo quello che succede nella Repubblica Centrafricana con la missione Minusca e quello che succede in Mali, considerando il fallimento delle Nazioni Unite nell’impedire il genocidio ruandese e l’inefficacia – tutto sommato – della presenza Onu in Somalia, penso che dobbiamo tirare le somme di questa presenza con grande coraggio e lucidità. Una presenza che richiede un grosso numero di risorse e personale ma con dei mandati poco chiari e trasparenti su alcuni punti che sono fondamentali: ovvero la protezione dei civili, l’impedire che si compiano sulla popolazione crimini come lo stupro, l’utilizzo dei bambini soldato, e l’impossibilità di rendere quando meno difficile la circolazione delle armi leggere.