L’accordo di Trump è una vittoria per i talebani?
Il 29 febbraio Stati Uniti e movimento talebano hanno siglato l’accordo negoziale per porre fine alla guerra tra i due. Alla presenza del rappresentante statunitense per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, e del segretario di Stato Mike Pompeo, l’accordo è stato sottoscritto a Doha, in Qatar, dal delegato talebano Abdul Ghani Baradar e dal segretario alla Difesa Mark Esper.
Il processo negoziale era stato avviato nel 2007 dall’allora presidente Ahmid Karzai, poi ripreso nel 2012 con i dialoghi di Doha e più volte interrotto – l’ultima volta all’inizio di settembre 2019. Quello siglato il 29 febbraio è la migliore opzione in mano agli Stati Uniti per porre fine alla loro guerra più lunga, ormai persa, pur rischiando di riportare l’Afghanistan a una condizione molto simile a quella pre-2001. Un accordo che prevede la fine della guerra tra Stati Uniti e talebani, ma non tra i talebani e il governo afghano, che dovranno raggiungere – nelle intenzioni di Washington – un’intesa separata.
Tempi e termini dell’accordo
Entro 15 giorni i termini dell’accordo dovrebbero entrare in vigore, imponendo al governo afghano il rilascio dei 5.000 talebani detenuti. In cambio Kabul otterrebbe la liberazione di 1.000 prigionieri in mano ai talebani e l’accesso a un tavolo negoziale, al quale siederanno anche l’opposizione e la società civile, che dovrebbe portare a un secondo accordo per il futuro del Paese, insieme alla riforma dello Stato e del ruolo dei talebani.
Washington si è impegnata a ridurre le proprie truppe, passando nei prossimi 135 giorni dalle attuali 13.000 alle previste 8.600, sempre a condizione che le clausole vengano rispettate. Khalilzad si aspetta una riduzione della violenza dal 70% all’80%, a cui seguirà la graduale de-escalation militare. Sono invece 14 i mesi da attendere, al termine dei quali il presidente statunitense – Donald J. Trump o il suo eventuale successore – dovrà prendere la decisione finale: ritiro totale o mantenimento di una forza militare di presidio.
Chi perde e chi vince
Gli Stati Uniti perdono la guerra, ma il presidente Trump ottiene il successo di un accordo che porta al disimpegno militare promesso agli elettori statunitensi.
L’assenza del governo afghano dall’accordo di Doha, di fatto, esclude Kabul e ne sancisce il sostanziale abbandono. Lo Stato afghano è di fatto fallito: non ha il controllo delle aree extra-urbane e delle vie di comunicazione; le sue forze di sicurezza, deboli e fiaccate dalle pesanti perdite in combattimento e dalle diserzioni, rischiano il collasso; la classe dirigente è ormai impegnata a salvare sé stessa; la litigiosità politica, che si accompagna agli ultimi cinque anni di assenza di governo, apre a una nuova fase di guerra civile. In tale quadro, il governo afghano è stato completamente marginalizzato, al punto tale da dover posticipare, in seguito all’accordo Usa-talebani, l’insediamento del presidente eletto. Un’ulteriore mortificazione che ne conferma la subalternità. Di fatto, Washington ha posto Kabul di fronte a una decisione presa. Ma al di là degli accordi sottoscritti, che servono esclusivamente al presidente Trump per presentarsi in campagna elettorale come colui che ha posto fine a 40 anni di guerra in Afghanistan, i talebani attendono senza fretta il momento opportuno per scagliare la loro offensiva.
Il movimento talebano ottiene la vittoria più importante: il riconoscimento formale e il via libera a guidare un secondo negoziato con Kabul. Questa seconda fase porterà alla spartizione del potere e delle risorse economiche del paese, oltre a una libertà di manovra nella gestione dei narcotraffici di oppiacei che rispondono al 92% della domanda globale.
Una partita che non è stata giocata su un unico campo dai talebani. Il movimento, che fu del mullah Mohammad Omar e oggi è guidato dal mawlawì Hibatullah Akhundzada, ha da tempo avviato accordi paralleli, così da non concedere l’esclusività agli Stati Uniti e ottenere più di quanto Washington non avrebbe voluto concedere. E così, Russia, Cina, Iran e Pakistan hanno ottenuto un ruolo non secondario nel rapporto con i talebani. In particolare, il Pakistan avrà un peso determinante nel condizionare la seconda tranche negoziale.
Due orizzonti
Due scenari, entrambi dipendono dalle decisioni che prenderà il presidente statunitense. La prima ipotesi prevede il ritiro totale delle forze statunitensi, e di conseguenza della Nato. Un’opzione che chiuderebbe qualunque ulteriore capacità di intervento e aprirebbe a una nuova fase della guerra civile. Si potrebbe così scatenare un maggiore caos: emergerebbero nuovi attori della violenza, come lo Stato islamico Khorasan, la branca afghana dell’Isis, e i talebani potrebbero prendere il potere in ampie parti del paese, persino più di quanto ne abbiano oggi. Una prospettiva, dunque, non molto diversa da quella del 1996-2001 e che si concretizzerebbe, da una parte, in un’alleanza tra i tagiki e i signori della guerra, mentre dall’altra, nella proclamazione dell’Emirato islamico dei talebani nelle aree sotto il loro controllo.
La seconda ipotesi, più probabile e sostenuta dal Pentagono, potrebbe vedere il mantenimento di 3-5.000 truppe statunitensi in funzione di contro-terrorismo, a cui potrebbe affiancarsi una residua presenza della Nato a supporto. Uno scenario simile a quello attuale, ma ridimensionato nello sforzo e nei rischi.