La sfida del coronavirus e le ambizioni globali della Cina
Mentre sulle testate internazionali prosegue la conta – quasi morbosa – dei contagi e delle vittime del nuovo coronavirus, la Cina inizia a fare i conti con i primi effetti di una crisi che, nei mesi a venire, avrà significative ripercussioni economiche, sociali e politiche. Nel corso degli ultimi anni Pechino si è largamente esposta – politicamente ed economicamente – per la promozione di una rinnovata centralità del Paese nella scena internazionale; ora, l’epidemia ha di fatto imposto alla dirigenza cinese l’urgenza di ricalibrare le proprie priorità in termini di politica domestica ed estera. Tra vecchie preoccupazioni e nuovi nervosismi, il coronavirus ha avuto tra i suoi effetti quello di portare al centro del dibattito le complessità di una Cina le cui crisi locali hanno oggi portata globale.
Credibilità politica a repentaglio
La prima questione in gioco per Pechino è quella dell’affidabilità e credibilità politica. Nonostante le autorità cinesi abbiano fatto di tutto per rimarcare il differente approccio adottato nella gestione dell’epidemia di coronavirus rispetto a quanto accaduto nel 2003 con la Sars – cosa che è valsa loro il plauso dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) – nel corso delle ultime settimane sono state sollevate diverse critiche nella gestione nella prima fase dell’emergenza. La storia del medico Li Wenliang, deceduto il 7 febbraio in seguito al contagio da coronavirus e del suo tentativo di avvertire le autorità dell’esistenza di questo nuovo virus già a dicembre, ha contribuito a creare discredito sulla credibilità del governo sia fuori che dentro il Paese. Così come l’incongruenza tra le cifre iniziali riportate da diverse fonti cinesi e il rimpallo di responsabilità tra governo locale e Pechino. Perciò il governo oltre a dover cercare di recuperare la fiducia della comunità internazionale, dovrà rispondere alle diverse voci critiche che in questi giorni affollano i social cinesi. I classici metodi di censura, in questo caso, potrebbero non bastare.
Pechino sembra infatti aver deciso di recuperare un approccio già sperimentato in seguito alla crisi della Sars, offrendo come principale capro espiatorio l’amministrazione locale di Wuhan. Dopo l’iniziale licenziamento di due ufficiali sanitari della provincia di Hubei, la persistenza della crisi richiede che ora saltino altre teste; gli ultimi ad essere stati recentemente epurati sono Jiang Chaoling, segretario di partito per la provincia di Hubei e Ma Guoqiang, capo di partito a Wuhan, rispettivamente rimpiazzati da Ying Yong, sindaco di Shanghai e personaggio molto vicino a Xi Jinping, e Wang Zhanglin, segretario di partito della città di Jinan in Shandong. Nel frattempo Pechino continua a inviare ufficiali fidati a Wuhan per gestire la crisi sanitaria; l’ultimo di questi è Chen Yixin, burocrate di alto rango e fidato collaboratore di Xi, ora a capo della gestione della crisi.
Nel tentativo di sminuire le voci secondo cui il governo centrale avrebbe sottovalutato l’emergenza, nei giorni scorsi è stato diffuso un comunicato in cui – tra le righe – si lascia intendere che Xi Jinping diede le prime indicazioni su come gestire la crisi già nei primi giorni di gennaio. La decisione di rendere noto questo dettaglio aveva probabilmente l’obiettivo di dimostrare la prontezza di risposta delle autorità. In realtà, questa notizia si è rivelata un boomerang, in quanto confermerebbe che dal 7 gennaio (giorno in cui Xi avrebbe dato le prime direttive) al 20 gennaio (prima dichiarazione pubblica di Xi sul coronavirus), il governo centrale non avrebbe messo in atto misure adeguate all’entità della crisi.
Si complica il discorso economico
La seconda questione in gioco è invece di natura economica. Proprio in un momento in cui l’economia cinese sembrava manifestare i primi segnali di ripresa – anche in seguito al raggiungimento dell’accordo con gli Stati Uniti – le ripercussioni delle misure di contenimento dell’epidemia stanno già avendo un rilevante impatto sulle proiezioni dell’andamento economico di breve e medio periodo. Un danno non solo in termini di crescita economica ma anche di promozione internazionale. Le ricadute globali di questa epidemia suonano come un campanello d’allarme per tutti quei Paesi che oggi scontano gli effetti negativi di un’eccessiva dipendenza dal mercato cinese.
Strettamente legata ciò, vi è anche la questione relativa all’estrema vulnerabilità delle moderne catene del valore globale e degli effetti che il coronavirus sta avendo su di esse. Con le aziende di tutto il mondo sempre più interdipendenti, anche la temporanea chiusura degli stabilimenti cinesi potrebbe avere un considerevole impatto sulla produzione globale. Un caso emblematico è quello di Apple. L’azienda potrebbe subire un drammatico rallentamento nella produzione e commercializzazione dei propri prodotti proprio a causa della chiusura degli stabilimenti che si occupano della realizzazione di diverse componenti dei dispositivi Apple.
Tensioni internazionali nella crisi sanitaria
I problemi a livello internazionale non si limitano al campo economico, a pagare lo scotto del caso coronavirus sarà anche l’immagine promossa da Xi Jinping della Cina come superpotenza globale. Uno degli obiettivi cardine che nel corso di questi anni ha motivato la politica di Xi è infatti quello di far riacquisire al Paese il ruolo ed il prestigio internazionale che gli spetterebbero. Sono da leggere sotto quest’ottica molte delle strategie politiche ed economiche che sono state adottate in ambito domestico ed estero: dal primato nello sviluppo tecnologico fino ad arrivare a grandi progetti di connettività come la Belt and Road Initiative. L’esplosione dell’epidemia coronavirus impone a Pechino di concentrare tutta la sua attenzione sull’attuale crisi domestica, costituendo dunque un freno, almeno temporaneo, alle ambizioni globali del gigante asiatico.
Una volta che l’emergenza sarà rientrata, la Cina dovrà in qualche modo riprogrammare l’impianto narrativo con il quale ha promosso negli ultimi anni i suoi progetti internazionali. I problemi emersi nel corso di questi due mesi non sono di certo delle buone premesse per un paese che vuole farsi campione e promotore della connettività globale.
Infine, a completare il quadro, c’è la questione di dover affrontare una possibile pandemia in un momento storico di forti tensioni tra superpotenze. L’approccio ideale richiederebbe uno sforzo comune. Tuttavia, tralasciando le dichiarazioni di circostanza, Washington e Pechino non hanno perso occasione per scambiarsi accuse. Il segretario statunitense al Commercio Wilbur Ross ha dichiarato che il coronavirus aiuterà riportare negli Stati Uniti le aziende che hanno delocalizzato in Cina. Al contempo, Pechino condanna la decisione statunitense di aver bloccato i voli diretti con la Cina e accusa gli Stati Uniti di diffondere panico senza fornire un aiuto concreto alla risoluzione della crisi.
Al di là delle complicazioni politiche ed economiche, il coronavirus rappresenta una sfida globale, non solo cinese. Una crisi sanitaria come quella attuale, che per fortuna sembra avere una portata limitata, rappresenta il banco di prova delle nostre capacità di risposta collettiva a minacce globali in un periodo storico segnato da un forte scetticismo nei confronti della cooperazione internazionale e degli organismi multilaterali. Le premesse non sembrano tuttavia incoraggianti.