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Il Piano di pace per il Medio oriente

Israele-Palestina: prospettive elettorali dopo l’annuncio

6 Feb 2020 - Nello del Gatto - Nello del Gatto

Quanto peserà il piano di pace presentato da Donald Trump sulle elezioni in Israele? Molto. Sia per Israele sia per la Palestina, semmai anche in quest’ultima si dovessero decidere a tenere le consultazioni come più volte promesso.

La soluzione per il Medio oriente presentata dal presidente americano e frutto del gruppo di lavoro che ha avuto a capo suo genero, Jared Kushner, è chiaramente un piano che accontenta Israele; in molti denunciano che sia stato scritto dal premier Benjamin Netanyahu. È anche un piano “realistico”, che fotografa la situazione attuale, che mette su carta quanto già accade.

Si, perché con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale da parte degli Usa, con gli insediamenti e de facto il controllo che già da anni Israele esercita sulla valle del Giordano, non si è fatto altro che mettere fine all’ipocrisia che, da Oslo in poi (qualche analista dice anche prima) vige nell’area. I semi infatti di molte cose previste dal piano, erano già presenti. Gli accordi di Oslo né da gran parte di Israele né da gran parte della Palestina; un piano fortemente voluto dalla comunità internazionale ma mai apprezzato localmente, non a caso i due protagonisti hanno pagato con la vita. Piano realistico non significa ottimo piano. Non si parla della soluzione a due Stati, non la si esclude, ma si creano le condizioni affinché difficilmente possa avvenire. Il problema è anche la crisi economica nella quale si trova la Palestina dopo la riduzione delle sovvenzioni internazionali, americane in primis, che potrebbero portare a diverse considerazioni sul piano.

Il terreno perso dalla Palestina
Come nota su Al Arabiya lo scrittore e giornalista libano-iracheno Hussain Abdul-Hussain, la Palestina “deve scegliere tra il modello di uno Stato autonomo che assomigli a Dubai o un Paese sovrano che assomigli al Libano”. Per lo scrittore, come per tanti analisti, la Palestina, a causa di una classe dirigente inesistente, di governi telecomandati da un presidente allergico alle elezioni e agli oppositori, a causa di una vita di sussidi e di corruzione, ha perso molto terreno sulla via della nascita dello Stato, anche nei confronti dei vicini. Sono molti infatti gli Stati arabi che, pure nella riunione di sabato scorso convocata d’urgenza da Abu Mazen dopo la presentazione del piano di Trump, hanno mostrato più vicinanza a questi e a Israele che alla Palestina.

E sono tutti quelli nei quali l’economia è fiorita: Bahrein, Oman, Arabia Saudita, Emirati, oltre all’Egitto. Il Qatar, che necessita dell’Iran come degli Usa si tiene in una posizione intermedia mentre la Turchia ha ospitato il leader di Hamas che, tra l’altro, ha deciso che da ora in poi vivrà a Doha. La Giordania è divisa da un lato dalla necessità di assicurarsi l’acqua e il gas da Israele e dall’altro di evitare l’arrivo nel Paese di profughi palestinesi, ma anche di evitare sommosse interne se non dovesse appoggiare lo stato di Palestina. Non a caso prima della presentazione del piano re Abdallah parlava di “bicchiere mezzo pieno”.

Una Singapore in Medio oriente?
Il ragionamento di Hussain Abdul-Hussain è semplice. La Palestina potrebbe diventare, accettando gli aiuti americani previsti dal piano, la nuova Singapore, la nuova Hong Kong, non certamente il nuovo Libano autonomo ma la cui economia è in caduta libera. Con il piano, i palestinesi controllerebbero le aree A e B della Cisgiordania, come delineato dall’accordo di Oslo del 1993. Insieme, queste due zone assommano a 2.256 chilometri quadrati, ovvero il 40% dell’area della Cisgiordania di 5.640 chilometri quadrati (compresa Gerusalemme est). Questo territorio ospita 2,8 milioni, il 97%, di palestinesi della Cisgiordania. Uno Stato palestinese otterrebbe anche la piccola e densamente popolata Striscia di Gaza, dove 1,9 milioni di palestinesi vivono in 369 chilometri quadrati. La Palestina avrebbe anche 350.000 abitanti di Gerusalemme, insieme ai loro quartieri nelle parti nord-orientali della città.

Secondo il piano di Trump, uno Stato palestinese avrà probabilmente una superficie totale di 3.000 chilometri quadrati e una popolazione di quasi cinque milioni. Rispetto alle economie della tigre asiatica, la Palestina sarà cinque volte più grande di Singapore e tre volte più grande di Hong Kong. Con cinque milioni di abitanti, la Palestina sarà meno densamente popolata di Singapore, con una popolazione di 5,6 milioni e Hong Kong, con 7,4 milioni. Anche se molto più piccoli e più affollati di una futura Palestina, Singapore e Hong Kong hanno attualmente un Pil rispettivamente di 340 e 350 miliardi di dollari, mentre la Palestina, un mediocre 15 miliardi. Se i palestinesi dovessero manifestare interesse per l’accordo, i promessi 50 miliardi di dollari di aiuti economici potrebbero anche essere aumentati. Ciò potrebbe dare ai palestinesi un decennio di rapida crescita economica, il che significa una manciata di posti di lavoro, buone entrate e prosperità per i palestinesi, anche se a spese della sovranità e della maggior parte della loro terra. Ma contro tutto ciò, pesa l’incertezza politica e la retorica.

Netanyahu e Abu Mazen consolidano il consenso
Se una cosa il piano di Trump lo ha ottenuto, è di aumentare pariteticamente il consenso verso Abu Mazen e verso Netanyahu nei rispettivi Paesi. Il primo si è anche incontrato con i vertici di Hamas, cosa che non succedeva da mesi, per fare fronte comune contro il nemico israelo-americano. Il secondo, con le elezioni alle porte, con la citazione in giudizio per frode, corruzione e abuso d’ufficio, ha sicuramente guadagnato punti grazie al piano di Trump e ad essere riuscito a portare a casa Naama, l’israeliana da alcuni mesi in carcere a Mosca per possesso di 10 grammi di marjuana. Non a caso, le quotazioni di Netanyahu e del suo Likud sono in ascesa a scapito del centrista Blu e Bianco, che pure ha dichiarato, tramite il suo leader Benny Gantz, la volontà di annettere la valle del Giordano. Entrambi stanno perdendo i favori dei coloni, scontenti del piano di Trump che li chiude in una enclave dalla quale non possono uscire o espandersi. La situazione dal punto di vista elettorale è in stallo.

Come in Palestina, dove agli annunci di nuove elezioni, le prime da oltre 14 anni, non sono seguiti i fatti. Hamas, per sparigliare le carte, ha annunciato che potrebbe appoggiare quel Marwan Barghouti, in carcere da tanti anni, antagonista storico di Abu Mazen. E fioccano anche le indiscrezioni sul reale stato di salute dell’ottuagenario presidente palestinese che non starebbe benissimo ma si ripresenterebbe di nuovo. Al momento, l’unica certezza è rappresentata dall’incertezza della situazione. Come risponderanno quando Israele annetterà la valle del Giordano, anche se di fatto è già loro?  E quando si farà più forte la pressione degli Stati del golfo verso l’accettazione del piano americano o, comunque, di un emendamento allo stesso? Il nodo resterà comunque Gerusalemme. La città santa, difficilmente sarà divisa o ceduta. E, senza quella, nessuno discute. Non ci sono elezioni o governi di sorta.