Il ‘caos costruttivo’ per il Medio oriente
Giugno 2006: nel corso di una conferenza stampa congiunta con l’ex premier israeliano Ehud Olmert, Condoleezza Rice, allora segretario di Stato americano, lancia “il progetto per il nuovo Medio oriente”. Un piano che doveva partire dal Libano, come suggerito dall’ex titolare di Foggy Bottom, nel momento in cui la guerra tra lo Stato ebraico e Hezbollah era nella sua fase più intensa.
Il progetto per il “nuovo Medio oriente” doveva sostituire il precedente del “Grande Medio oriente” che l’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush aveva tenuto a battesimo all’indomani dell’11 settembre 2001: un piano allargato che avrebbe dovuto segnare le sorti anche di Paesi dell’Islam asiatico come Iran, Turchia, Afghanistan e Pakistan. Anziché allargare il controllo verso est, occorreva adesso rafforzare invece la presa nel cuore della regione. “Quello a cui siamo assistendo qui – disse Rice indicando Israele e Libano – sono le doglie propedeutiche al parto del nuovo Medio oriente e qualunque cosa faremo sarà nella direzione di creare questo nuovo ordine”.
La strategia del disordine imposto
Il progetto lanciato dall’ex capo della diplomazia americana ha di fatto coinciso con l’inizio di una fase di perdurante instabilità per la regione, trasversale a tutte le Amministrazioni che si sono succedute a Washington negli ultimi tre lustri. Tanto che la dottrina ispiratrice di quel progetto è stata definita del ‘caos costruttivo’ non solo da osservatori come il canadese Mahdi Darius Nazemroaya, ma anche da pionieristici funzionari delle Nazioni Unite. Con la caduta di Saddam Hussein l’accezione si è trasformata in ‘caos creativo’, divenendo calzante al senso delle Primavere arabe agevolate dalla gestione di Barack Obama.
Con la capitolazione di regimi che controllavano all’incirca 100 milioni di arabi, si è creata tra Medio oriente e Nord Africa una serie di buchi neri il cui riempimento è tuttora una ‘missione impossibile’. E il vento del ‘caos creativo’ sta ancora sollevando le sabbie di quelle regioni, sebbene l’America, interventista per natura, abbia compiuto con il presidente Donald Trump un percorso di maturazione verso un atteggiamento ancora più cinico che vede oggi più che mai nel disordine imposto qualcosa di favorevole, sino a quando – questo è ovvio – non va a ledere i propri interessi. Il risultato è di fatto un’accelerazione del fenomeno che costringe gli altri a scontrarsi purché nessuno ne esca più forte di tutti.
Ecco allora che gli Stati Uniti dicono di andare via dalla regione (vedi il caso siriano) e poi rimangono, si schierano con chiunque sia funzionale ai loro interessi (i curdi in funzione anti-Isis e subito dopo coi turchi che dei curdi sono i peggiori nemici). Operano parallelamente alle Unità di mobilitazione popolare (Hashed Shaabi), ovvero le milizie sciite irachene, contro il Califfato e poi compiono raid contro le loro basi nel valico di Al Qaim per arginare l’influenza di Teheran nel Paese vicino.
Gli interessi statunitensi e l’obiettivo Usa 2020
Creano insomma un disordine creativo di cui solo loro riescono a muovere le fila tale da rendere per gli altri complicato capire cosa accadrà. Un disordine che all’interno degli Usa risponde alla posizione in cui si è arroccato il popolo a stelle e strisce, in particolare quello che ha permesso a Trump di uscire vincitore dalle elezioni del 2016 e, probabilmente, da quelle del prossimo novembre. Ovvero ‘disimpegnarsi’ per risparmiare soldi e soldati e intervenire solo quando gli interessi nazionali rischiano di essere lesi, petrolio in primis.
Alzare la tensione con l’Iran è parte organica di questa strategia anche perché conferisce agli Usa una forza asimmetrica che in realtà non avevano sino a ieri. E che anzi hanno subito nelle guerre più recenti combattute da Washington tradizionalmente contro un nemico che operava in maniera non convenzionale. Asimmetria ma non solo, perché l’accelerazione improntata da Trump, e che ha trovato forma nell’uccisione di Qassem Soleimani, ha restituito agli Usa anche l’arma della deterrenza che era stata accantonata da Obama.
Il potente leader militare iraniano ha infatti peccato di un eccesso di sicurezza: avendo assistito negli ultimi anni al ritiro degli Usa dalla Siria e al loro indebolimento in Iraq e nel Golfo, ha pensato che il ‘Grande Satana’ fosse in ginocchio al punto da poterlo combattere con agilità ed efficacia da Baghdad, dove aveva creato una delle cabina di regia militare più efficace della regione. Ed è proprio nella capitale irachena che il protetto dell’ayatollah Ali Khamenei ha trovato la morte, permettendo agli Usa di inviare un messaggio chiaro su come amministrerà i propri affari nella regione. Potenzialmente per altri cinque anni.