Da Teheran a Damasco. Tutti i nodi spiegati da Springborg
Nel suo nuovo libro sul Medio Oriente, il professor Robert Springborg che, oltre a essere autore di svariati volumi sul tema, è editorialista del mensile The Middle East in London, da lui stesso fondato, si concentra sul passato e sul futuro economico dell’area. “Lungo l’ultimo secolo – racconta – l’economia diventò una materia più tecnica, divorziando dalla politica. Questo testo è un tentativo di andare indietro, per vedere quali erano le cause politiche dei risultati economici nel Medio Oriente”. Ma durante l’intervista Springborg non vuole soffermarsi sulla sua pubblicazione, e preferisce, piuttosto, affrontare un’analisi sui punti critici e spinosi della politica internazionale: dalla situazione in Iran, alla Turchia, passando per l’esito della Conferenza di Berlino.
L’Iran è alla vigilia delle elezioni parlamentari, alle quali ovviamente non parteciperanno i candidati più riformisti, esclusi dal Consiglio dei Guardiani. Qual è la situazione politica nella Repubblica Islamica di Iran dopo l’uccisione di Soleimani?
“L’uccisione di Qasem Soleimani polarizza non solo l’Iran, ma anche gli Stati Uniti e quindi il mondo. Riguardo l’Iran, il campo riformista è sulla difensiva e il Consiglio dei Guardiani è stato capace di lasciare fuori tutte le candidature dell’area riformista. In passato non erano riusciti a spingersi così in là e questo indica che l’uccisione di Soleimani ha avuto serie di conseguenze negative per la fortuna politica dei riformisti e quindi, l’assassinio ha aggravato le differenze tra Usa ed Europa.”
Anche in Iraq abbiamo visto una grande ondata di proteste contro il governo. Cosa dobbiamo aspettarci da ciò?
“Come nel caso di tutte queste grandi rivolte, è davvero difficile prevedere lo scontro finale. Cos’è successo nella scorsa settimana? A Baghdad e nel Sud, Moqtada al-Sadr ha deciso che sfrutterà l’instabilità creata dalle proteste per diventare l’attore politico dominante nel paese e quindi, pur avendo supportato le proteste fin dall’inizio, ha poi cambiato posizione e ha deciso che avrebbe supportato il governo, entro il quale spera di collocare la sua idea politica. In Libano Hezbollah ha fatto esattamente la stessa mossa: all’inizio ha dato supporto ai dimostranti, poi si sono messi dietro le fila del governo, che ora hanno formato. È uno scenario che, sospetto, sia scritto a Teheran, non a Beirut o a Baghdad. Questo è ciò che succede e che poi Moqtada al-Sadr si muova come l’Iran voglia o no, rimane da vedere, perché in passato ha mantenuto le distanza da loro. In ogni caso, ora sembra che la linea sia vicina a quella iraniana e può prendere potere a Baghdad, in modo indipendente o, più probabilmente, in cooperazione con gli iraniani”.
La Conferenza di Berlino non è stata capace di portare la tregua in Libia. C’è una via d’uscita da questa situazione?
“Lo stesso direttore dell’Istituto di Affari Internazionali, la dottoressa Nathalie Tocci, ha risposto a questa problematica in un recente articolo, esortando la formazione di un esercito comune europeo. A parte questo, è davvero difficile vedere un modo in cui l’esercito nazionale libico del Generale Haftar possano essere contenute. Finora, si è opposto ad ogni tentativo di cessare i combattimenti e ritiene fermamente che alla fine conquisterà la Libia Occidentale. Ha gli Emirati Arabi, l’Egitto, qualche fazione russa e francese a supporto. Perciò, ha diverse carte da giocare e certamente più del Gna (governo di accordo nazionale ndr) di Tripoli. Solo se ci sarà una forza che si interporrà tra le milizie del Gna e quelle del Lna (Armata nazionale libica ndr), questo potrà fermare il conflitto. Ad ora, Haftar ha bocciato l’idea di forze dell’Onu, quindi le Nazioni Unite non procederanno in tal senso. L’unica possibilità resta quella di un esercito coordinato europeo, perché gli Usa non parteciperanno. Personalmente, non penso ci sarà questa eventualità, perché è troppo complicato unire insieme diverse forze e non so quanto tempo rimasto ci sia prima che le milizie di Haftar conquistino Tripoli. I segnali sono abbastanza evidenti e penso che alla fine la Lna trionferà. Sarà questo la fine del problema? No, piuttosto l’inizio di un altro, perché (Haftar ndr) non è abbastanza forte per comandare tutto il paese. Nel futuro prossimo ci saranno continui scontri, vendette, uccisioni, instabilità e così via. È una vera disgrazia che l’Onu non sia stata capace di muoversi prontamente in questa circostanza così problematica, lasciando Ghassan Salamé, Rappresentante Speciale per la Libia, e i suoi alleati senza supporto. Questo poveruomo, che ha provato diligentemente e con creatività a ravvicinare le due fazioni, non è stato supportato nemmeno dalle Nazioni Unite, per le quali lavora. Ancora meno lo è stato dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. È stato gettato in un inferno personale, messo tra due fuochi, e poi in un inferno politico, dovendo svolgere un compito senza il supporto necessario per portarlo a termine. È un capitolo davvero triste per la capacità di mediazione delle Nazioni Unite e per Salamé”.
Il Presidente americano Donald Trump ha detto che la Turchia ha il diritto di proteggere i suoi interessi, visto che la Siria e gli Stati Uniti hanno sempre supportato un alleato Nato. Cosa ne pensa del ruolo della Turchia in questi fronti e di come Washington si sta muovendo a riguardo?
“Nel Medio Oriente ad oggi nessuno sembra messo bene. Tutti sembrano in posizioni negative e questo è ciò che succede nei conflitti nel lungo periodo, come nella Prima Guerra Mondiale. Riguardo gli attuali interessi turchi, c’è da dire che, a causa della precaria popolarità del Presidente Erdogan, il governo deve essere estremamente attento, come hanno fatto gli europei durante la scorsa decade, in merito ai residenti stranieri, all’immigrazione illegale e, in questo caso, alla più grande proporzione di forze siriane fuori dai loro confini, che appunto vive in Turchia (dai tre ai quattro milioni di siriani). Questo ha creato un problema, specialmente lungo il confine a Sud della Turchia, dove la popolazione turca locale non è contenta per la presenza di tanti rifugiati siriani. Penso che parte della policy di Erdogan è guidata da questa preoccupazione e vorrebbe avere una zona in Siria dove almeno alcuni di questi rifugiati, che al momento vivono in Turchia, possono tornare ed essere protetti. Questo perché tutti sanno, e Bashar al-Assad non ne ha fatto segreto, che lui sta effettivamente effettuando una pulizia etnica in Siria e pertanto i pericoli per coloro che sono scappati, che sono spesso musulmani sunniti in Siria, sono potenzialmente mortali e non hanno garanzie dal governo di Damasco. Se nulla succede, oltre al consolidamento del potere di Bashar al-Assad, i rifugiati siriani non torneranno indietro. Bisogna avere una sorta di che enclave nell’Est o nell’Ovest e ad oggi ce ne sono sia ad Oriente che ad Occidente, come in alcune zone curde, dove infatti diversi musulmani sunniti si sono rifugiati. In sostanza, penso che la preoccupazione di Erdogan sia davvero questa: la creazione di uno spazio di protezione per i rifugiati siriani in Siria e in seguito non dovranno tornare in Turchia e che quindi alcuni siriani, ora in Turchia, potrebbero realisticamente andare lì”.
E per quanto riguarda il ruolo del presidente americano?
“È difficile dire quanto Trump sappia di qualunque questione. Non è un uomo che dimostra una solida conoscenza dei dettagli di qualsiasi tema particolare, e ancora di più se è una problematica lontana e complicata come il Medio Oriente e in particolare la Siria. Penso che ciò che voglia fare sia ristabilire una relazione amichevole con la Turchia, che è un importante e vitale membro della Nato nella regione medio-orientale. Penso che Trump sia in qualche modo attratto dai dittatori ed Erdogan ad oggi ricade abbastanza in questa categoria. Ecco che l’interesse di Trump in questa dimensione è simile a ciò che vuole Erdogan e cioè che è più semplice, sia per gli americani che per i turchi, avere zone nel Nord della Siria che sono indipendenti dal governo di Damasco. Per questo motivo, sia Trump che Erdogan hanno un interesse comune in questo senso e penso che questo sia il motivo per cui accadrà qualcosa in questo senso. È comunque difficile da dire, perché i russi continuano a scagliarsi contro Idlib e sostenere le truppe siriane. Quanto a lungo gli Stati Uniti vorranno tener duro contro Putin e la sua tattica in Siria è difficile da prevedere e questo è il fattore più critico. Bisogna vedere se i russi si ritireranno o se non lo faranno. È un braccio di ferro che sta andando avanti con Washington e Ankara da una parte e Mosca e Damasco dall’altra. Nel passato, Trump si è ritirato: il suo storico è di un bluff, con conseguente ritiro. Poi c’è Erdogan, che è veramente preoccupato dal fatto che il supporto di Trump possa svanire con l’escalation del confronto. Con il tempo diventerà sempre più complicata e più difficile, perché è chiaro che i russi, gli iraniani, Bashar al-Assad non vogliono un’area autonoma nel Nord della Siria”.